Mese della cultura bosniaca: il dialogo interreligioso

Da sinistra, Nadan Petrovic, Muhamed Fazlovic ed Enrico Silverio

“Il fatto che noi bosniaci abbiamo la multiculturalità nel sangue mi fa credere che ce la faremo”. Con la lettura di frammenti tratti dal libro Il nostro viaggio” di Enisa Bukvic si è aperto il dibattito sul dialogo interreligioso in Bosnia-Erzegovina, tenutosi lo scorso 23 marzo presso il museo della Civiltà Romana, nell’ambito dell’iniziativa “arte e cultura dell’Europa dell’est a Roma”, che dall’8 marzo al 5 aprile vede protagonista proprio il tormentato paese ex jugoslavo. “Tradizionalmente una terra di incontro-scontro tra religioni e culture diverse, dove nessuna di queste prevale in modo schiacciante, caso unico in Europa”, spiega Nadan Petrovic, cooperatore internazionale e per l’occasione moderatore dell’appuntamento. “Abbiamo una storia islamica secolare, ortodossi e cattolici, con una divisione anche sul piano etnico. La parola ‘convivenza’ mi pare una forzatura, per noi è la vita normale. E ora anche paesi come l’Italia si trovano a dover trattare questi temi”.

L’Impegno islamico per la pace… “Sarajevo è come una seconda Gerusalemme, nel giro di 1 km abbiamo la cattedrale del Sacro Cuore, la chiesa ortodossa, la grande Moschea e la Sinagoga”, aggiunge Muhamed Fazlovic, imam, studente al secondo anno presso la Pontificia Università Gregoriana. “Il dialogo e la pace sono questioni su cui lavorare con ogni mezzo. L’islamizzazione della Bosnia dopo la conquista ottomana lasciò ampi margini di tolleranza, Maometto II nel 1463 firmò un documento che garantiva le libertà per le altre confessioni”. Un altro episodio significativo, ci fu durante la seconda guerra mondiale. Dervis Korkut, capo bibliotecario del museo nazionale, per salvare la Haggadah – manoscritto illustrato di tradizione ebraica, risalente al XIV secolo e di valore inestimabile – dai nazisti e dagli ustascia, “la consegnò ad un religioso musulmano, che la nascose sotto le assi del pavimento della moschea”. Anche a Roma, Fazlovic si trova in un ambiente multiculturale, ospite dell’ordine dei passionisti al Celio, con gente da tutto il mondo. “Ho visto personalmente il dialogo e l’intreccio religioso. Noi bosniaci riusciamo a trovarlo anche fuori dal nostro paese, è il nostro legame con il passato”.

In apertura fra Marko Hrgot si ebisce in un canto popolare bosniaco

… e quello cristiano Gli fa eco fra Marko Hrgot, studioso al Pontificio Istituto di Musica Sacra, specializzato in  canti gregoriani, abile nel dimostrare la sua bravura con l’esecuzione di un canto popolare ad inizio incontro: “la specificità dell’ambiente rende necessario il dialogo tra i tre popoli e le altrettante confessioni. Purtroppo chi è stato al potere ha spesso usato l’identità come un fattore di divisione, dimostrando incapacità anche nel riconoscere le colpe per non aver creato un futuro migliore. La soluzione sta nel confronto, non solo religioso, ma soprattutto socio-politico, per dare importanza al valore della pluralità, unendoci nella diversità, ricchezza importantissima. L’impegno deve coinvolgere sia le alte istituzioni che la gente comune, ancora c’è troppa frammentazione, bisogna combattere l’odio per l’altro, sforzarci seriamente per conoscerlo”.

Crocevia storico di popoli “Già dopo la conquista da parte romana, la Bosnia era un crocevia di civiltà”, spiega Enrico Silverio, avvocato esperto in diritto romano. “Politica e religione erano separate ma non isolate e questo sistema fu ripreso sia dall’impero d’oriente, di Costantinopoli, che dagli ottomani dopo il 1453”. Molte sono le analogie tra le cariche e gli istituti anche dopo l’islamizzazione, “il califfo deriva dal magistratus, il concetto di umma è l’equivalente di populus, fino al paragone non da tutti accettato tra bellum iustum e jihad. Maometto II era stato un attento lettore di classici greci e latini, tanto che si fregiò del titolo di ‘Cesare’, rimasto in vigore fino a Maometto VI. I valori romani sulla tolleranza sono stati un punto di partenza, proseguiti nel corso della storia di questo paese”.

Il prefetto Sandra Sarti

Interreligiosità in Italia “Ogni religione non è solo un credo, ma regola anche la convivenza in una comunità, si espande a tutto il modo di vivere”, l’opinione di Sandra Sarti, prefetto dal 2010 direttore centrale per gli Affari dei Culti nell’ambito del Dipartimento per le Libertà Civili e l’Immigrazione del ministero dell’Interno. “Abbiamo molto da imparare dall’esperienza bosniaca, la coabitazione non è facile, il concetto di identità ci dà sicurezza, ma contiene anche elementi di narcisismo, afferma una diversità che istintivamente porta a giudizi impliciti di superiorità. Da qui bisogna sviluppare gli sforzi per eliminare i conflitti e le religioni possono essere portatrici di messaggi di pace, con un grande potenziale di interazione e dialogo”. Solo da pochi anni l’Italia si è trovata a fronteggiare il tema di una reale compresenza di più confessioni, “è la sfida della globalizzazione, il rapporto caritas sostiene che i migranti in tutto il mondo siano 54 milioni, una trasformazione notevole. La comunità bosniaca nel nostro paese si ferma a circa 30 mila persone, non siamo tra le mete più ambite – nord Europa, Stati Uniti e Canada”. La legge italiana garantisce tramite la Costituzione le libertà di culto, che possono svilupparsi su più livelli: “dalle semplici associazioni, al riconoscimento giuridico, agli accordi con lo Stato”. Ad oggi sono sei le confessioni che hanno firmato le intese, altrettante sono in attesa di ratifica, tra queste manca l’islam, soprattutto per la sua frammentazione che non prevede un interlocutore unico. Ma dal 19 marzo il ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione Andrea Riccardi ha inaugurato la conferenza permanente “Religioni, cultura e integrazione”, tavolo d’incontro con i leader delle principali comunità straniere. “Dai 500 enti di culto del 1997, siamo passati agli oltre tremila attuali”, chiude la Sarti.

Gabriele Santoro(26 marzo 2012)