Festival di Venezia, è attesa per Io sto con la sposa

#iostoconlasposa
#iostoconlasposa

“Quale poliziotto di frontiera chiederebbe mai i documenti a una sposa?” Questo si chiedeva Gabriele Del Grande una sera di ottobre del 2013 e noi presto sapremo la risposta.

Il film che è vita vera, ideato da questo giovane giornalista, Io sto con la sposa, è una vicenda documentata che sfiora l’incredibile ma si aggancia alla realtà più nera e attuale, quella della guerra, in particolare la guerra in Siria.

Giovedì pomeriggio 4 settembre il film sarà presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, edizione numero 71. “Il matrimonio-denuncia sulla difficoltà di scappare dalla guerra”, finanziatosi con il crowdfunding (su Indiegogo.com) che ha guadagnato ben 98.151 euro da 2.541 produttori improvvisati da tutto il mondo: molto di più rispetto a quanto avevano chiesto e probabilmente si aspettavano. Importante sarà la distribuzione, sia nazionale che non, non dimenticando le implicazioni di questa vicenda. Intanto con il Festival il film si farà conoscere premendo ancora verso il cambiamento delle politiche migratorie.

Visto che scappare dalla guerra non è mai facile, dei ragazzi con un’escamotage ci hanno provato, creando attorno a loro una certa attesa.

Per chi non è a Venezia o non ha trovato  più biglietti, – sold out anche l’evento live su mymovies.it – c’è ancora una possibilità, prenotare i posti on demand: I film di Orizzonti e Biennale College della 71. Mostra del Cinema di Venezia, saranno disponibili anche on demand su Mymovies per 5 giorni dalla trasmissione LIVE. Per assicurarsi la visione anche on demand è necessario prenotare un posto.

Buona visione!

Nel frattempo, per ingannare il tempo, riproponiamo la nostra intervista a Gabriele Del Grande.

Un poeta palestinese siriano e un giornalista italiano incontrano a Milano cinque migranti dalla Siria e Palestina sbarcati a Lampedusa e in fuga dalla guerra. Decidono di aiutarli a proseguire il loro viaggio clandestino verso la Svezia. Per evitare di essere arrestati come contrabbandieri però, decidono di mettere in scena un finto matrimonio coinvolgendo un’amica palestinese che si travestirà da sposa, e una decina di amici italiani e siriani che si travestiranno da invitati. Così mascherati, attraverseranno mezza Europa, in un viaggio di quattro giorni e tremila chilometri. Un viaggio carico di emozioni che oltre a raccontare le storie e i sogni dei cinque palestinesi e siriani in fuga e dei loro speciali contrabbandieri, mostra un’Europa sconosciuta. Un’Europa transnazionale, solidale e goliardica che riesce a farsi beffa delle leggi e dei controlli della Fortezza Europa con una mascherata che ha dell’incredibile, ma che altro non è che il racconto in presa diretta di una storia realmente accaduta sulla strada da Milano a Stoccolma tra il 14 e il 18 novembre 2013. (www.iostoconlasposa.com)

Su Indiegogo.com è stata da poco rilanciata la campagna di crowdfunding per sostenere la realizzazione del film che racconta questa “storia fantastica, ma dannatamente vera” in modo tale che arrivi alla Mostra di Venezia 2014 per avere la massima risonanza possibile. Il film è al momento in fase di post-produzione. E’ possibile contribuire (e guadagnare i relativi premi) fino al 17 luglio 2014.

Gabriele Del Grande
Gabriele Del Grande

Le storie che il giornalista Gabriele Del Grande, il regista Antonio Ogolearo e il poeta Khaled Sulaiman Al-Nasiri documentano in questo film sono le storie vere di Tasneem e Abdallah, gli sposi, e poi quelle di Mona e Ahmed, di Manar e Abu Manar… storie dal campo profughi palestinese di Yarmouk, a Damasco.

Gabriele Del Grande racconta a Piuculture “perché #iostoconlasposa“.

Prima di parlare del film, vorrei chiederti: cosa hai visto in Siria?

Ho visto la guerra. Ho visto la morte calare dal cielo. Ed erano i bombardamenti aerei del regime su obiettivi civili nei quartieri insorti di Aleppo e delle campagne di Idlib. Ma ho anche visto la paura e il senso di sconfitta nello sguardo di tanti attivisti che tre anni fa erano in piazza a protestare chiedendo libertà e che oggi si trovano stretti nella morsa tra il regime ed Al Qaeda. E poi ho visto tanta vita. Tanto amore. Quello delle infermiere volontarie negli ospedali di campo, degli insegnanti nelle scuole improvvisate sotto i bombardamenti, dei volontari nei campi profughi lungo il confine, dei ragazzi dei media center di Aleppo, ma anche dei civili stessi che continuano a restare umani in mezzo alla guerra. A sposarsi, a fare figli, ad aprire la porta di casa ad un ospite straniero. La guerra può essere anche questo. Una lezione sull’inferno e sulla bellezza.

Appena ho letto di #iostoconlasposa l’ho immaginato come realtà e finzione, forse addirittura più teatrale che cinematografica, e un po’ reality… Sicuramente “un genere piuttosto unico nel suo genere”, contando anche il fatto che dichiara apertamente di voler andare contro i generi stessi, le categorie, le convenzioni, le leggi ingiuste… tu come definisci il vostro progetto?

Non c’è finzione nel nostro film. Non ci sono dialoghi scritti. Non ci sono attori. È una storia vera. Ed è un documentario in presa diretta che la riprende. Certo è una storia folle agli occhi di molti. Ma è la nostra storia. Quella di un gruppo di amici di Milano che ha deciso di stare dalla parte della sposa. Di disobbedire alle leggi e di ascoltare, per una volta la coscienza. Il dato surreale della storia fa parte della nostra esperienza umana. Abbiamo deciso noi deliberatamente di correre il rischio di essere arrestati per favoreggiamento e di mascherarci per ridurre quel rischio contando sul fatto che nessuno avrebbe mai fermato una sposa. Le camere si sono limitate a riprendere la nostra storia, ma ripeto non c’è finzione. Sulla definizione del genere però lascio la scelta agli esperti…

Raccontami bene come è andata: come hai conosciuto queste persone? Dove eravate? Chi durante una chiacchierata ha detto: “chi fermerebbe una donna vestita da sposa per chiederle i documenti alla frontiera?” E perché l’hai fatto?

Abbiamo conosciuto per primo Abdallah, lo sposo. Eravamo in stazione a Milano. Fine ottobre 2013. Io ero appena tornato dalla Siria, e ci eravamo dati appuntamento per un caffè con due amici di Damasco che vivono da tempo a Milano: Tareq e Khaled, che poi è anche uno dei registi. Mentre cercavamo un posto dove sedere, si avvicina un ragazzo sulla trentina, zainetto in spalla, occhiali da sole, e ci chiede in arabo se sappiamo da che binario parte il treno per la Svezia. Ci mettiamo a ridere e lo invitiamo a sedersi con noi per un caffè. Quel giorno ci ha raccontato del naufragio dell’11 ottobre, da cui si era salvato per un soffio. Pochi giorni dopo abbiamo deciso che dovevamo aiutare lui e altre persone che avevamo conosciuto nel frattempo. L’idea della sposa è venuta a me.  All’inizio era più una battuta che altro, arrivata dopo un giro di troppo di grappa. Il giorno dopo ci siamo risvegliati e quell’idea ci sembrava invece molto seria. E ci siamo lasciati conquistare e abbiamo deciso di rischiare tutto per questo sogno. Che non è solo il sogno di fare un film. Ma è soprattutto il sogno di creare un mondo senza regimi di frontiera, dove viaggiare non sia reato e dove per spostarsi da una parte all’altra nessuno debba andare a morire in mare o affidarsi a un contrabbandiere per mille euro a testa.

Che storie ti hanno raccontato queste persone? Qual è la storia che ti ha colpito di più?

Storie di guerra, di viaggi perigliosi in mare, ma anche storie di sogni, di speranza, di avventura e di amore…

#iostoconlasposa
Tasneem, la sposa

Ma sicuramente la storia che più mi ha colpito è stata quella della sposa. Si chiama Tasneem, è una ragazza palestinese siriana di Damasco. E di lei mi ha colpito la sua scelta di restare fino all’ultimo. Lei infatti aveva una doppia cittadinanza, un passaporto tedesco che le avrebbe permesso di lasciare la Siria in qualsiasi momento e in modo sicuro. Invece ha deciso di restare durante più di due anni di guerra, per esserci, come donna, in mezzo alla catastrofe e aiutare nel possibile. È davvero una persona speciale. Senza di lei non sarebbe stato lo stesso film.

Si parla sempre dei trafficanti africani, o per lo meno, dei contrabbandieri che portano i migranti dall’Africa all’Italia. Che mi dici di quelli italiani ed europei? Come si viaggia? Quanto si arriva a pagare?

C’è tutto un giro che gravita intorno alla stazione centrale di Milano e intorno ai centri di prima accoglienza della città. Milano è diventata un punto di transito. Funziona che i siriani e gli eritrei, le due comunità che meno desiderano fermarsi in Italia, scappano dai centri di accoglienza siciliani dopo lo sbarco, prima che la polizia prenda loro le impronte digitali. Una volta arrivati in treno a Milano, senza passaporto, si affidano a questi autisti che al prezzo di mille o duemila euro li portano in Germania, Svezia, Olanda, dove preferiscono. Ci sono autisti che lavorano in proprio, per arrotondare. E altri che invece sono organizzati in gruppi più grossi. Le autorità italiane li lasciano lavorare di fatto, perché servono a smaltire il flusso di persone dall’Italia ai paesi europei.

lorostannoconlasposa
lorostannoconlasposa

Noi ci siamo improvvisati contrabbandieri anche per denunciare questa situazione. Anche se per noi i responsabili non sono i contrabbandieri ma le leggi europee che criminalizzano il viaggio. Perché un siriano non può prendere un volo RyanAir da Bergamo a Stoccolma? E deve affidarsi a un contrabbandiere? E lo stesso potremmo dire dall’Egitto. Perché un siriano non può avere un visto dall’ambasciata svedese e andarci in aereo a chiedere asilo? Questo è il vero problema, la restrizione del diritto alla mobilità. Il contrabbando è semplicemente la risposta del mercato nero a una politica di proibizionismo, in questo caso sul viaggio.

A che punto siete con il film? E che sta succedendo ora? State rischiando sul serio 15 anni di carcere per aver favorito l’immigrazione clandestina o pensi che la vostra idea riuscirà in qualche modo a essere più forte?

Il film è stato girato a novembre. Abbiamo finito il montaggio da una decina di giorni e ora stiamo finendo la post-produzione. L’obiettivo è iscriverlo al festival del cinema di Venezia, per avere la massima visibilità. Ovviamente poi le sorti del film saranno appese alla decisione della commissione che seleziona i lavori. Ma noi ci crediamo molto. Sui rischi, rischiamo una denuncia a piede libero per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, art.12 della legge 286/98, comma 1 e 3. Con l’aggravante di avere portato cinque persone e di essere un’organizzazione di tre persone. Il rischio massimo della pena è di 15 anni e di 15mila euro di multa per ogni persona portata in macchina senza documenti di espatrio. Tuttavia se ci dovessero davvero denunciare quando il film sarà pubblico, noi abbiamo buoni avvocati per difenderci: per dimostrare che non l’abbiamo fatto per lucro e che casomai a processo andrebbero portate le leggi della migrazione che in questi anni hanno fatto tanti morti in mare.

L’idea del vostro docufilm mi ha fatto pensare subito a un bellissimo film, Train de vie. Il villaggio ebraico che si traveste e si deporta da solo per fuggire al nazismo, verso la terra santa. C’è un pezzo in cui una bambina chiede: “ma la terra è santa soltanto in un posto?” e la nonna risponde: “No, la terra potrebbe essere santa in ogni posto, basterebbe volerlo. Così non sarebbe mai più lontana”. Perché non tutti possono viaggiare liberamente? Pensando anche al tuo Fortress Europe, secondo te il futuro migliore di tutte queste persone che arrivano ogni giorno dall’Africa è davvero in Europa?

Non credo che l’Europa sia la soluzione. La soluzione è per ognuno vivere una vita come la vuole, come la sogna. E se alcune migliaia di persone sognano di vivere in Europa io non vedo niente in contrario. A maggior ragione se arrivano da un paese dilaniato dalla guerra come la Siria. Sono pochissime le persone in realtà che vengono in Europa. Meno dell’1% dei 12millioni di siriani scappati dalle loro case per la guerra sono poi arrivati in Europa. E noi non riusciamo ad accogliere nemmeno queste persone? Nella sola Roma transitano 20milioni di turisti l’anno… Parliamo di cifre ridicole. Che però diventano tante quando lo Stato costruisce un dispositivo totale di controllo sulla frontiera. Dove le persone vanno recluse, identificate, disinfettate, interrogate, smistate, gestite, integrate… Basterebbe dare loro la possibilità di viaggiare liberamente in andata e in ritorno. Di fargli investire i soldi del viaggio in un albergo dove dormire, di avere un visto per ricerca lavoro, il tempo per organizzarsi….

Rispetto a Train de vie, non ci ha ispirato direttamente. La nostra è stata davvero un’idea spontanea frutto del nostro immaginario di fronte a una situazione umana che stavamo vivendo e che avevamo conosciuto attraverso questo nuovo gruppo di amici siriani a Milano.

Alice Rinaldi
Roma 10 giugno 2014