Libano ospite d’onore al MedFilm Fest, intervista a Rihab Abou Zein

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Quale è stato il motivo che vi ha portato a partecipare alla sedicesima edizione del Medfilm Festival? Quando la presidentessa del Festival Ginella Vocca ci ha proposto di partecipare a questa edizione in quanto ospiti d’onore insieme alla Spagna, siamo stati ben lieti di prendere parte alla manifestazione, così da poter far conoscere il nostro cinema.Che tipo di integrazione ritiene che esista tra Italia e Libano? I rapporti tra i nostri paesi sono sempre stati molto stretti. Anche in un’ottica di prossimità culturale, le tradizioni ed i costumi libanesi sono molto vicini allo stile di vita europeo.Di sedici milioni di libanesi nel mondo, solo quattro vivono nel suo paese… Il fenomeno di una emigrazione così forte ha radici lontane, non è un tema esclusivamente recente. In realtà, anche logisticamente, immaginare un gran numero di persone negli stretti confini del Libano è impensabile. Molte persone, comunque, si sono spostate in conseguenza delle guerre, trovando rifugio in altri stati. Alcuni sono tornati, altri sono rimasti nei paesi che li hanno accolti, lavorando e contribuendo al loro progresso. I libanesi sono persone molto adattabili.Molti dei film presentati al festival, come Balle perdue di George Hachem, premiato per la miglior espressione artistica, affrontano il tema della guerra da una prospettiva particolare. Pensa che questa ferita non si sia ancora rimarginata?Bisogna pensare che il cinema durante la guerra non esisteva. I registi libanesi oggi attivi hanno in qualche modo sentito l’influenza della guerra, che ha fatto parte della nostra vita per molto tempo, perciò tendono a rappresentarla nei propri lavori. Anche le nuove generazioni, che non hanno vissuto quel periodo, vogliono conoscere quella parte della nostra storia. E’ una parte importante del nostro vissuto che bisogna raccontare. Da allora però molte cose sono cambiate.In Balle perdue la protagonista, Noha, si ribella ad un matrimonio in cui non crede e, a dispetto delle aspettative della famiglia, decide di non sposarsi incorrendo nell’incomprensione e nell’ira della sorella maggiore e del fratello. Ritiene che nel suo paese esista ancora una concezione gerarchica della famiglia e che le donne non siano libere di scegliere il proprio futuro liberamente? Il film di cui stiamo parlando è ambientato nel 1975, un Libano cioè molto diverso da quello attuale. In ogni caso è molto difficile generalizzare, poiché esistono ben 17 confessioni religiose in Libano, diverse classi sociali, ognuna delle quali con il proprio bagaglio culturale. Le famiglie più agiate sono in tutto simili a quelle europee, ed hanno costumi più liberali, mentre in altre c’è ancora una concezione più tradizionale della famiglia, più gerarchica.L’ambasciata del Libano ha dei programmi futuri di integrazione con il nostro paese? Abbiamo programmi culturali individuali ogni tanto, mentre da un’altra parte l’ambasciata italiana in Libano è molto attiva dal punto di vista delle iniziative d’integrazione. Esiste una stretta collaborazione con la Cooperazione allo sviluppo del Ministero degli affari esteri italiano. Grazie ad essa è stato possibile ristrutturare un ospedale per malattie mentali in Libano. Il documentario “Home” di Philip Bajjaly, presentato al Festival del cinema di Roma quest’anno, ha raccontato il lavoro della famiglia di medici che ha fondato questo ospedale nel 1967 e che per tre generazioni ha continuato a gestirlo, dedicandosi all’assistenza di persone con problemi psichiatrici. E’ un peccato che film di questo genere, così ben realizzati, non possano godere di maggiore visibilità. 

Davide Bonaffini
(24 Novembre 2010)