Il ventre del pitone

Enzo Barnabà e Marcello Appignani
 Giovedì 20 gennaio 2011 nella libreria Rinascita di via Savoia Enzo Barnabà ha presentato il suo libro Il ventre del pitone, leggendo alcuni brani accompagnato dalla chitarra di Marcello Appignani. 

La prefazione del libro è stata scritta da Serge Latouche, economista francese, con cui Barnabà aveva già collaborato in una precedente opera, Sortilegi. L’autore ricorda come vennero a conoscenza: ci siamo conosciuti in Benin, lì abbiamo visto che avevamo delle affinità e abbiamo deciso di pubblicare dei racconti africani, punto di vista nostro sull’Africa. Abbiamo una visione simpatizzante per l’Africa però cerchiamo di non essere né buonisti né cattivisti. È stato normale che chiedessi a Serge di scrivere la prefazione di questo libro, visto che era anche uscito già due anni fa in Francia col titolo “Le ventre du pitone”. La sua è un’introduzione di pregio, perché si dilunga a parlare dell’Africa oggi. Viene fuori con questa formula, per cui il mercato colonizza lo stato, che è succube dell’economia. Latouche ha anche inventato la formula della colonizzazione dell’immaginario, ripresa poi da molti autori. Per me è importante che abbia visto in questo romanzo anche le vicende di una colonizzata nell’immaginario, dal mercato, dai richiami della pubblicità, dai mille input che arrivano dall’occidente, per cui si pensa che l’occidente sia il paradiso terrestre. Gli africani cominciano a pensare sempre più come i bianchi, tanto che alla fine la protagonista si chiede se l’Africa della sua infanzia esista ancora o sia diventata un’Europa di serie b, di cui prende gli scarti.  

Il titolo Mi è stato suggerito indirettamente da Moravia. Una delle differenze che lui trova tra l’Europa e l’Africa nera, sta nel fatto che in Africa la natura,anche quella umana, è scatenata mentre da noi è imbrigliata. Ad esempio la protagonista (di cui vedremo dopo, nda) non si stupisce quando prende la nave italiana che da Tunisi la porta in Europa che il capitano prima di partire non versi un po’ di gin nel mare come avrebbe fatto un capitano africano per ingraziarsi i geni dell’acqua. Da qui già capisce di essere arrivata in un posto in cui i geni non sono scatenati, ma imbrigliati come nel ventre di un grosso pitone. Ma ahimè il pitone può sempre aprire la bocca. Il romanzo cerca di spiegare agli occidentali l’Africa così come l’abbiamo capita noi, vedendo le differenze, ma non dal punto di vista eurocentrico.  

La narrazione Sono stato alle prese con una triplice sfida. Io mi metto nei panni della narratrice e protagonista, Cunegonda, che è giovane, donna e africana e non è il mio caso. Ma per me è naturale mettermi nei panni degli altri, ho questa forma di empatia. Il romanzo è ambientato in Costa d’Avorio all’inizio, poi la nostra protagonista fa un viaggio per arrivare in Italia, a piedi dalla Costa d’Avorio, durato due anni. La protagonista è una donna in carne e ossa che nel romanzo è diventato un personaggio, ma la persona esiste e vive a Palermo. Lei stessa mi ha detto “vorrei che qualcuno raccontasse la mia vicenda perché è fuori dal comune”. La sua infanzia è ordinaria, tipica di tutte le ragazze della sua generazione e della sua regione. A me serve come esempio per spiegare come una giovane africana impara a decifrare il mondo con gli schemi culturali che poi si porterà da adulta. Man mano che Cunegonda scopre gli europei e l’Europa, scopre le differenze. Ad esempio quando nel suo viaggio si imbatte in uno spagnolo, Mario, tocca con mano che quello che aveva sentito dire da bambina sulla follia dei bianchi esiste. Per l’africano il bianco è uno che va avanti e indietro come  giocattoli caricati dalla cordicella, che corrono senza un preciso scopo e finita la carica crollano. Ma le novità iniziano nella stessa Africa, già arrivata nel sud del Mali trova un mondo totalmente diverso da quello conosciuto, così come nell’attraversare il confine tra Senegal e Mauritania, cioè tra Africa nera e mondo arabo, dove di allegria ce ne è sicuramente meno. 

Gabriele Santoro 

(21/01/11)