
Porte, soglie, bambini, oggetti, attraversamenti, vulnerabilità e tele. Dal cinema al teatro, dalla critica al fumetto, dalla musica alla cucina, non c’è una cosa fuori posto: Santarcangelo•12, Festival Internazionale del Teatro in Piazza, per la giovane e nuova direzione di Silvia Bottiroli, Cristina Ventrucci e Rodolfo Sacchettini, ha trovato l’armonia. Per il prossimo anno aspettiamo, ancora una volta, idee italiane che non siano solo splendidamente evocative, ma anche un po’ più “politiche”.Nato proprio da lì, negli anni ’70, dall’incontro di un sindaco e un artista, il festival di Santarcangelo rivela «il desiderio di solitudine» della creazione che si fa più forte nel «desiderio di condivisione, come il Grizzly Man di Werner Herzog» che arrivò a morire in nome di entrambi. Professionisti e “profani”, adulti e bambini si sono incontrati in Piazza, perché è una «necessità dello sguardo» dice Cristina, «una soglia per diversi tipi di teatro» dice Silvia, «rappresenta il coinvolgimento della comunità» che in fondo “non c’è ma si vede”, dice Rodolfo. Nei tanti incontri di dibattito e confronto, al di là dell’inutile teatrino del chiedersi cosa sia il teatro – quanto siano pesanti e vuote le parole, quanto poco strani i luoghi comuni – non c’è il bisogno di definizioni, c’è bisogno di «tornare ad avere uno sguardo lungo», politico.Fortunatamente dentro Santarcangelo, tra accampamenti poetici – una riserva di indiani lunari proiettati sulle pareti dello Sferisterio, quando il Teatro Valdoca pensa a John Cage – e grotte dove suoni umani sembrano arrivare dal cuore della Terra – Petra genetrix di Filomela – Francia, Germania, Ungheria e Argentina ci danno l’esempio.

Les Éphémères del Théâtre du Soleil – avanguardia parigina fondata da Ariane Mnouchkine, che non è il Cirque – è un film di 360’ per 360°, “rivoluzioni complete” e manuali, effettuate dagli attori, di pezzi di scenografie viaggianti allestite su praticabili al massimo del realismo: spiagge, bagni, salottini in disordine e tante porte significativamente sempre sole. «Paesaggi affettivi», come li ha definiti uno spettatore, che rivelano la loro andatura che «non è cronologica, è cronica!» Un teatro che riesce a unire gioia e disperazione sullo stesso spazio, perfino il ricordo arriva su un pezzo di scenografia. Vedere gli oggetti da dietro – televisori o divani – oltre la classica scenografia frontale e, ancora, tanti bambini. Un teatro attraversato dal mondo (Titivillus, 2012) lo intitola Roberta Gandolfi insieme a Silvia Bottiroli: «Un montaggio di 12 mondi per 29 istanti, ognuno coi suoi pousser» – spingitori si direbbe, alla Guzzanti, ma colui che spinge è anche colui che cresce e fa volare, addirittura. «Sono loro che spazializzano il tempo che può durare poco o un’eternità, dando vita a una sorta di teatro anatomico: un’arena, una lente d’ingrandimento, una piazza Navona… non si può essere più penetrati. Artisti cercatori che attraverso la scrittura collettiva, danno vita a progetti/ricerche di 2/3 anni. Un teatro che nasce dall’etica della vulnerabilità descritta in Vite precarie (Meltemi, 2004) dalla post-femminista Judith Butler: oggi tutti, compreso l’Occidente, si sono resi conto di essere vulnerabili e interdipendenti, tutto allora dipende dalla cura che si ha nei confronti dell’altro. Il messaggio francese della Liberté, Égalité, Fraternité si affaccia così sul mondo, attraverso l’energia di legami soprattutto femminili che creano questa tela tra personaggi e frenesie comuni a tutti. Un teatro umanista che insiste più sulle similitudini che sulle differenze».

Insistere sulle differenze per trovare un’unione, nella complessa operazione di liberazione da ogni forma di dipendenza, è invece il racconto delle She She Pop da Berlino, sei donne cariche di cose da dire, che affrontano attraverso cambi di direzione, pregiudizi inscatolati nei cassetti – il titolo Schubladen porta con sé tutti questi significati – tra Germania Est e Ovest, figlie che parlano delle loro madri, dei loro amori, delle loro canzoni prima e dopo la caduta del Muro. Ma soprattutto durante. Con un’ironia senza limiti raccontano le donne dell’Ovest iperprotette, che fanno poesia e bevono Prosecco e quelle dell’Est sottoprotette, che studiano le tecniche di mimetizzazione e bevono vodka: «ho imparato da subito l’autocensura… credevo in una società giusta, ma era un’utopia senza luogo. E ora sto perdendo la mia patria». Cosa c’è dietro quella tenda? «La confusione dell’unione», tra un Est che continua a volere un Paese senza pubblicità e un Ovest che scopre il Paese vero. «Hai idea di come sia… avere a che fare con persone mai separate dalle cose? Sopravvivere a 102 tipi di yogurt?» Stop. Spiega. «A Natale ricevevo 7 regali. Oggi ne ricevo 37. Utili, 4».

Un racconto attraverso oggetti che fanno la storia di una persona, libri, diari, vinili. E un racconto dentro gli oggetti come quello sperimentato da Gyula Molnàr, regista, attore e “oggetto” di origini ungheresi, che in Piccoli suicidi esordisce: «mi suiciderò due volte» animando con la sua voce trasformativa una pastiglia di alka-seltzer che vuole essere accettata da una manciata di cioccolatini e una tragica storia d’amore tra un chicco di caffè, una brasiliana di nome Pita e Ian, fiammifero svedese. Storie di «stesse cose allo stesso posto, sempre» con una poesia finale sul «tempo, una cosa seria» che vola: quando gli orologini vanno a dormire, perché «domani devono svegliare presto». Una riflessione sui modelli di comunicazione e l’impatto delle convenzioni sociali ritorna anche in CMMN SNS PRJCT – Common Sense Project – dall’amicizia tra Laura Kalauz, argentina e Martin Schick, tedesco. Tra regali e truffe, prestiti e aste, il pubblico reagisce dentro la convenzione e nella proposta delle idee. Nessuno voleva il preservativo gratis, eppure qualcuno, dopo lo spettacolo, si è portato a casa un enorme flacone di ammorbidente. Vendendo al miglior acquirente lo spettacolo nello spettacolo, mentre si inscena, con tanto di rassegna stampa estera a prova che il business funziona. Lentamente danno vita a uno spazio performativo super-ricco, nonostante i due inizialmente non avessero nemmeno i vestiti, che diventa microcosmo vitale – «se questo fosse il mondo l’Italia sarebbe 5 cm₂ e 50 di noi morirebbero di fame», tanto che ci si guarda e ci si parla. I due, attraverso la condivisione, si interrogano sul dono, sulla natura, sulla proprietà, inscenando aperture e chiusure, improvvise e improvvisate, come quando ci regalano fogli del copione, dopo essersi nascosti dietro una barricata.

È il teatro di ricerca che fa sì che «lavori più o meno complessi diventino accessibili a tutti». Ma tra gli spettatori si percepiscono delusioni: «c’è poca piazza quest’anno, pochi spazi aperti e pochi nomi emergenti». I direttori sorridono: «è interessante questa percezione, perché quest’anno, al contrario, c’è più piazza e performatività. Il bisogno lo crei nel momento in cui si attua. Quello che non ci piace è il “giocattolone”. Il festival è un grande elemento di gioco, ma dev’essere ben contestualizzato, il giocatore reso consapevole, non so come dire. Solo in questo modo possiamo fare leva sulle sue reazioni».E chi si intende più di gioco, se non i bambini? Arte per nulla, dagli omonimi “pensieri per l’infanzia” di Federico Moroni, maestro illuminato di Santarcangelo, libera i bambini sul palco per farci rendere conto di quanto prendano sul serio il gioco… del teatro – «i meloni sono più pesanti dell’altra volta!». Zuppi di gesso, fanno a gara nell’atto creativo, suggeriscono, comunicano con il regista o meglio conduttore, Silvano Voltolina, forniscono sentenze inappellabili – «questo disegno è un vomito!» – ognuno con la propria personalità forte. Conduce e non dirige, proprio come farebbe un maestro. Come farebbe Pina Bausch – raccontata dalla giornalista Leonetta Bentivoglio – che cercava nei suoi lavori «ambienti veri, grandi personalità e questa continua ricerca del perché si vuole essere amati». Ci si rende conto alla fine dell’errore ricorrente dell’adulto, non si è mai data così tanta attenzione a quello che fanno i bambini, mentre lo spettatore diventa un po’ genitore, sorella, zio, e lo sguardo si ribalta, venendo da chiedersi: «cosa penseranno di me e di noi?»

Protagonisti assoluti di questo festival, bambini più illuminanti degli adulti, come in Ads, esperimento di Richard Maxwell, ripetuto in diverse città, in cui si chiede ai cittadini, di varie età, professioni e posizione sociale: «in cosa credi? Cosa è importante per te?» Il pubblico in questo caso è quello da comizio, ride e applaude, ma non a tutti. «Credo nel cambiamento, sennò che noia! E credo in una frase che ho sentito: everyone is a rat, but anyone is just a rat»: il ragazzino, protagonista anche in Sogni di Virgilio Sieni, viene da una comunità di Pennabilli (Rimini), figlio di un Mutoid, un “riciclatore”, capace di trasformare i rifiuti urbani in opere d’arte. Siamo noi dunque, I topi che lasciano la nave, con tutti i suoi scricchiolii, come succede nella gara di ballo estraniante, senza musica, o solo per alcuni, organizzata dal gruppo cinematografico Zapruder… la gente arriva in Piazza piano piano, «attirata come lucciole» dice Cristina; può essere una luce, una musica, delle parole, in questo caso è il suono della sottrazione: di tacchi che ballano sul legno, amplificati. Un suono strano, mai sentito, che circola nel borgo e ci libera, neanche fossimo di fronte al pifferaio magico di Hamelin. Il corpo dei ballerini è totalmente rapito dalla musica in cuffia, mentre sotto va in scena l’insofferenza di chi non può sentire, come quando sugli autobus vedi quei ragazzi che cantano senza voce e tu ti chiedi, che canzone sarà, da meritare di essere cantata così, nel vuoto?

Forse Valeria Di Modica, che ha collaborato ad Arte per nulla, ha ragione quando semplicemente commenta «loro giocano il loro gioco». Come semplicemente devi sognare il sogno. Non ti chiedono niente di più i Sogni di Sieni, altro laboratorio con la comunità (es)temporanea di Santarcangelo. Quattro stanze, un percorso, tre sogni – pieni di bambini camuffati da strane creature notturne e diurne. Sembra davvero di sognare insieme a chi è a letto, di svegliarsi, appena usciti dalla scuola Pascucci, di realizzare girato l’angolo e di dimenticare arrivati al CentroFestival, accolti da Laratatuia – nomi d’arte anche in cucina – che ti fa mangiare subito se chiedi un’Ultima Chiamata. Tant’è che una signora commenta: «mi è piaciuto tantissimo, ma l’ho già dimenticato!», forte e leggero come un sogno in cui i sogni e i sognatori alla fine si uniscono.

Così succede che a un certo punto gli spettacoli si confondono, scenari, parole e personaggi. I ratti di Ads e quelli di Zapruder, i bambini di Arte per nulla e quelli di «Sogni», i pregiudizi di Schubladen e quelli di CMMN SNS PRJCT, il prossimo e l’altro da sé del Théâtre du Soleil e di Molnàr. Ma di questa apparente confusione, come diceva Pina Bausch, «conta quello che noi vediamo, non come ci arriviamo», superare l’incastro tutto italiano della teoria, e semplicemente cogliere. Cristina non è d’accordo: «quando pensi a un festival ti esponi, lo costruisci, è importante il come».Silvia aggiunge: «Da ipotesi a creazioni, abbiamo pensato a questo filo forte del coinvolgimento, dell’esposizione non narcisistica, della fragilità come porta di accesso agli altri che crea una tela insieme semplice e complessa. Persone comuni hanno preso la scena e gli artisti sono rimasti in residenza per tanto tempo – non succede spesso – per poter studiare i contesti e i rimandi dello sguardo: ci hanno raccontato di una qualità dell’ascolto e dell’abitare altissima. Una ‘piazza concentrata’ su spettacoli nati in teatro che avevano potenzialità anche con lo spettatore occasionale». «Per noi è fondamentale», riprende Cristina, «cogliere lo sguardo da fuori. Dovrei intervistarti io». Rifiutando l’idea dello «spettatore come euforico consumatore dentro un luna-park», mi sentivo più immersa in una favola vera, dove ogni laboriosità si muove tra teatro e città, palco e platea, spesso coincidenti nello stesso spazio. Mai comodamente seduto, lo spettatore vuole, elegge, sogna, compra, comunica. Rendendoci tutti un po’ bambini, senza bisogno del “giocattolone”.
Alice Rinaldi(22 luglio 2012)