Amedeo Ricucci: i rischi dell’informare dalle zone di guerra

Amedeo Ricucci, giornalista
“La grande differenza tra l’informazione fatta da tv e giornali e quella fatta sui social media è che la prima racconta macrostorie, la seconda microstorie”, spiega il Ministro Giulio Terzi lo scorso 21 marzo all’incontro promosso dal Ministero degli Affari Esteri che si è svolto a Roma presso la sede del MAE . È per questo che la presenza di media digitali nelle zone di guerra diventa fondamentale: per documentare senza ritardi, dare opinioni dirette, raccontare le storie che in tv non arrivano. È questo il presupposto di Siria 2.0, reportage trasmesso da Rai Tre e ideato da Amedeo Ricucci, anche lui intervenuto in occasione del convegno. “Ho documentato la guerra con uno smartphone di ultima generazione”, ha raccontato Ricucci, che ha vissuto per 15 giorni in Siria tra la gente comune, “non nella camera di un albergo come molti colleghi”, ha detto scherzando. Ha filmato bombardamenti, esecuzioni sommarie, storie ordinarie dei civili, e le ha portate nella tv italiana con l’indipendenza che caratterizza il buon giornalista. E’ proprio mentre continuava a documentare per noi la tragica guerra che tormenta la Siria da oltre due anni che Amedeo Ricucci è stato sequestrato con i suoi tre colleghi: Elio Colavolpe, Andrea Vignali e l’italo-siriana Susan Dabbous, collaboratrice del Foglio.Dalla primavera araba al terremoto di Haiti, dalla battaglia di Aleppo alla cattura di Osama Bin Laden, sono ormai moltissimi gli esempi di come il giornalismo, correndo anche dei rischi, abbia cambiato volto – e strumenti – per far fronte alle nuove esigenze di una comunicazione sempre più rapida e globale.L’informazione si sta piegando alle nuove tecnologie. E lo sta facendo davvero su tutti i fronti, soprattutto quelli militari. Sembra essere questo il punto focale del convegno dove sono intervenuti, oltre al Ministro Giulio Terzi e ad Amedeo Ricucci, il Generale Massimo Panizzi, la giornalista Sonia Mancini, il fotografo e blogger Antonio Amendola e Antonio Deruda, esperto in digital diplomacy “Per organizzare la diretta TV da Haiti in seguito al terremoto sono state necessarie 24 ore. Ma già 7 minuti dopo il disastro erano partiti i primi tweet”, ha ricordato Giulio Terzi, l’unico ministro ad aver voluto per il proprio dicastero due account “social” – uno Twitter e uno Facebook – che controlla personalmente dal suo Blackberry, rispondendo in prima persona o attraverso il suo staff alle discussione sollecitate dagli utenti.Che le documentazioni prodotte dagli eserciti possano vantare la stessa oggettività, non è certo. Ma che anche la Difesa si stia ingegnando per produrre informazione in prima persona, questo sì, è un fatto. Lo ha testimoniato il Generale Massimo Panizzi,  facendo notare come gli eserciti abbiano iniziato ad usare le piattaforme digital per raccontarsi in prima persona, gestendo la propria immagine pubblica e parlando di sé e del proprio lavoro. Video realizzati dai soldati e caricati su Youtube sono quindi all’ordine del giorno, ma anche Instagram – la piattaforma fotografica che permette agli utenti di comunicare attraverso foto e immagini – è un canale che sta prendendo piede grazie all’uso di quegli stessi hashtag nati da Twitter, il popolare canale di microblogging.Le nuove tecnologie digitali consentono un’indipendenza che si manifesta anche nel lavoro di Antonio Amendola, che ha fotografato e pubblicato sul proprio blog, Fracture zone – nato dopo l’esperienza di #Caboolexpress, storie quotidiane dall’Afghanistan: analfabeti, sminatori, addestratori, bambini.Se varii sono i canali di condivisione e discussione delle informazioni, proprio Twitter è quello da cui possono ingenerarsi nuove dinamiche di (mancata) diplomazia. Antonio Deruda ha ricordato infatti come proprio su quest’ultimo sia nato un feroce scambio di tweet che ha visto protagonisti nel novembre del 2011 l’ISAF e il portavoce talebano in occasione dell’attacco alla sede della NATO di Kabul. Segno che le battaglie  tra eserciti – e, talvolta, entità non statali – non si combattono più solo sul campo, ma anche in rete. E che gestire la portata di queste informazioni – e le loro conseguenze – sarà via via sempre più complesso. 

Veronica Adriani(3 aprile 2013)