
Mohammad Reza Karimi è un iraniano di 44 anni, aspetto distinto, moglie e due figli appena adolescenti. Si trova in Italia come richiedente asilo dopo che, per la Convenzione di Dublino, Belgio ed Austria ne hanno respinto la domanda, essendo il nostro il primo paese Ue di cui Karimi e famiglia hanno toccato il suolo europeo. Fin qui una storia come tante, salvo il calvario subito tra Linz e Vienna a fine luglio, un trattamento da parte delle autorità locali di una violenza inaudita, tanto da meritare una denuncia all’Unhcr – la Commissione delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati – e articoli su quotidiani del paese alpino come Der Standard e Chronik.
I primi giorni in Austria erano stati regolari, con i figli iscritti a scuola, ma non poteva durare. E non per il procedimento di espulsione verso l’Italia, assolutamente legittimo. Dopo circa tre mesi di detenzione, il 29 luglio, è arrivata la comunicazione ufficiale per cui un aereo li avrebbe condotti a Roma. Il problema è che nel frattempo la moglie di Mohammad aveva seri problemi di salute, “un tumore alla trachea”, confida Karimi, “si sarebbe dovuta operare a tre giorni di distanza”. Chiaro che anche in Italia ci sono ospedali, ma la traduzione dal tedesco della documentazione e dei referti avrebbe fatto perdere del tempo prezioso, senza tralasciare le difficoltà di uno spostamento in condizioni di salute delicate.
“Non era una scusa per non lasciare l’Austria”, Karimi cercò di spiegarlo anche ai responsabili del centro che nel frattempo gli avevano lasciato due settimane di tempo per un ricorso fittizio, “mi dissero che comunque la decisione era stata presa, quindi sarebbe stato inutile farlo”. La protesta può anche essere stata sbagliata nei modi, Karimi ammette di avere rovesciato un tavolo, ma non tanto da giustificare la brutalità delle forze di polizia nella reazione che segue.
“Sono arrivati una trentina di agenti in tenuta antisommossa – “Cobra” l’eloquente nome delle forze speciali – non potevo credere fossero per me”, uno teneva Karimi sotto tiro dalla finestra della stanza, il che vuol dire che poteva colpire dal torace in su, tolte braccia e spalle diversi punti vitali. “Mi sono sdraiato sul letto per farmi prendere senza che mi facessero del male, ma si sono seduti in tre o quattro sulla mia schiena mentre un altro con le nocche dei guanti rinforzate in metallo ha cominciato a colpirmi sulla parte sinistra del volto mentre ero immobilizzato e ammanettato”.
È andata avanti così per almeno dieci minuti, con il sangue che colava da naso, orecchie, bocca “pensavo che mi avrebbero ucciso. Le manette mi segavano i polsi, il dolore quasi mi faceva dimenticare gli altri”. Buttato per terra, il pestaggio è continuato con calci e pugni “intanto l’ambulanza non arrivava né facevano passare medici e infermieri”.
La cosa che forse ha più ferito – non fisicamente – Karimi è stato il comportamento di un ragazzo afghano che parlava persiano ed ufficialmente era lì in veste di traduttore. “Mi colpiva con la gamba chiedendomi come stavo, poi in tedesco agli altri diceva che facevo finta e che potevano continuare. E pensare che sosteneva di lavorare per l’Unhcr, non posso dimenticarlo”.
Il trasporto in ambulanza non è stato nemmeno in barella, ma legato con due cinture su una sedia a rotelle, “non hanno lasciato avvicinare nemmeno mia moglie, che poi hanno condotto con i miei figli nella stanza dove mi trovavo per far vedere loro il sangue sul pavimento”, con tutti i problemi psicologici che può causare un trauma del genere a ragazzi poco più che bambini, peraltro già costretti a lasciare il loro paese.
Nemmeno nel tragitto per l’ospedale sono finite le torture, “c’era un poliziotto nell’ambulanza e continuava a darmi calci e spinte, piangevo supplicandolo di smettere ma più lo facevo più continuava”. Nell’istituto di cura è rimasto per tre giorni, di cui il primo in stato di incoscienza durante il quale non sono stati avvisati nemmeno famiglia ed amici, impegnati in una ricerca frenetica del proprio caro. L’unica cosa positiva è stato il rinvio della partenza che ha permesso alla moglie di operarsi, “non sappiamo quanto ancora avrebbe potuto resistere senza rischiare di perdere la voce o peggio”.
La giustificazione fornita è che “io stessi tenendo mia moglie in ostaggio per non tornare in Italia, ma è assurdo. Ci sono le testimonianze di altri detenuti nel centro, test psicologici assolutamente normali”, tanto che a metà settembre la storia è uscita – pur con un mese e mezzo di ritardo ma perché era necessario fare le dovute verifiche – sui due giornali austriaci nazionali già citati, “se non fosse stata vera non sarebbe stata pubblicata”.
Prospettive Al momento Karimi vive con la famiglia in un centro per richiedenti asilo, in attesa che la sua domanda venga valutata. Nel frattempo sta cercando di trasferirsi in una struttura che sia più consona alle esigenze, ad esempio con i corsi di italiano adeguati anche per i figli, ancora non iscritti a scuola. In tutto questo è anche in cura da uno psicologo che possa aiutarne il recupero per agevolare un normale inserimento nel nuovo tessuto sociale in cui si è venuto a trovare dopo le vicissitudini.
La divisione della polizia austriaca competente dell’espulsione è stata contattata via mail per rendere conto e fornire la propria versione ma, a distanza di oltre una settimana, non ha ancora risposto.
Link all’articolo pubblicato da Der Standard
Redazione: Gabriele SantoroIntervista: Gabriele Santoro e Ali SolemainpourTraduzione: Ali Solemainpour(23 ottobre 2013)