Roma: sveglia alle 6.30/7.00, “la colazione non è nei miei programmi”, prego, mi preparo e prendo l’autobus per la Stazione Tiburtina.
La mia giornata è lunga, esco alle 8 di mattina e rientro alle 11 di sera.
Lavoro come mediatore culturale in due centri di accoglienza diversi: il martedì e giovedì a Forano, mentre il lunedì e venerdì sono ad Acquaviva nel comune di Nerola, entrambi nella Sabina. Per arrivare ad Acquaviva prendo un autobus, poi il treno fino a Fara Sabina e un altro autobus, invece per Forano non ci sono collegamenti, ma per fortuna c’è Francesco “un caro amico, un collega, una bella persona” che mi passa a prendere e andiamo insieme.
Le giornate al centro sono sempre diverse “dipende dai programmi che abbiamo: a volte facciamo i colloqui, altre ci sono gli accompagni in questura o in ospedale”. Gli operatori parlano inglese, ma non francese così “con i francofoni parlo io”. I due centri non sono grandi, uno ha 30 ospiti e l’altro 22, “l’ambiente è tranquillo e mi trovo molto bene con i colleghi e tutti i ragazzi.” A pranzo stiamo tutti insieme e dopo si parla un po’ fra noi confrontandoci.
A Forano ogni tanto preparano il tè e mi fermo a chiacchierare con i ragazzi: ci raccontiamo tante cose che fanno ridere. Alcuni vengono dalla Costa D’Avorio come me o dal vicino Mali, dove ci sono modi diversi di fare. Ognuno dice un po’ la sua e si va avanti così. Sorride: ogni giorno c’è un racconto nuovo.
Ad esempio abbiamo parlato del viaggio di ritorno, di quando uno torna a casa. Un ragazzo maliano diceva che quando uno vuole tornare deve comprare i vestiti per tutta la famiglia (a volte sono anche cento persone), ma soprattutto alla moglie che deve cambiarsi vestito quel giorno tante volte, indossarne continuamente uno nuovo. Prima di partire devi mandare i soldi per comprare la stoffa e far cucire tutti i vestiti così quando arrivi è tutto pronto. Devi affittare un furgone e con la moglie andare al villaggio dove si fa la festa, si mangia la pecora e la moglie ogni due/ tre ore si cambia il vestito. Mentre un altro ragazzo della Costa d’Avorio ha detto “no da me non si fa così, è uno spreco di soldi. Quando arrivi porti i soldi a tuo padre e tua madre e vai a salutare le persone anziane”.
Alle 18 o 19 inizio il secondo lavoro fino alle 22: le pulizie in una fabbrica sulla Tiburtina. “Non è il fare due lavori che è stancante ma gli spostamenti”. Quando arrivo all’altro lavoro, i miei colleghi sono completamente diversi e quindi cambiano anche i discorsi: parliamo del problema dell’accoglienza e di politica “molti si lamentano della situazione e io racconto quello che vedo ogni giorno nei centri: se non stai dentro non puoi capire”. Nei centri più piccoli funziona meglio ma c’è tanto lavoro, uno cerca di fare il meglio. La cosa più importante ora è la libertà di movimento, perché non siamo veramente liberi: non vogliamo l’Europa dei confini, l’Europa dei muri.
“Io penso che nella vita dobbiamo sempre avere speranza altrimenti non riusciremo mai a fare qualcosa”.
Nella mia giornata non mancano i momenti di preghiera: non solo la mattina, alle 14 e poi alle 16 quando prego con i ragazzi al centro. La sera alle 20 non riesco e così lo faccio quando torno a casa. Arrivo alle 23 e “la giornata la lascio dietro alle spalle, penso alle altre cose: seguo il telegiornale e leggo cosa è accaduto mentre ero a lavoro. Non mi metto a ripensare, quando è ora di andare a dormire ci vado e il giorno dopo al risveglio preparo tutto per il giorno nuovo”.
“Ogni momento della giornata è importante, vivo un momento alla volta”.
Daouda
a cura di Silvia Costantini(12 settembre 2017)