Juru, Fathou, Salah, Alexandra. Sono loro, questo venerdì, africani di seconda generazione o autoctoni provenienti da diverse regioni del continente africano, i “padroni di casa”, alla mostra in corso al MAXXI “African Metropolis. Una città immaginaria, nell’ambito del progetto di mediazione interculturale “Afropolitan”. Realizzato grazie alla consulenza scientifica per la mediazione interculturale di La Speranza Cooperativa Sociale e con la collaborazione dell’Ufficio Intercultura delle Biblioteche di Roma, l’Associazione di volontariato Baobab Experience ONLUS, il CIES – Centro Informazione e Educazione allo Sviluppo ONLUS, il Consiglio dei Giovani del Municipio II il “servizio”, offerto dal museo, è previsto ogni giovedì e venerdi dalle 15.00 alle 19.00 fino al 4 novembre.Foto gruppo + dida Questo venerdì la foto di gruppo diventa ancora più completa perché in visita alla mostra troviamo dei ragazzi africani accompagnati da due volontarie dello spazio sociale autogestito della Garbatella “Casetta Rossa” Afropolitan offre al visitatore della mostra la lettura di una selezione di opere, personale e alternativa a quella storico-artistica curatoriale, da parte di chi conosce il continente africano, se non direttamente come provenienza geografica, per un legame culturale, di radici e di affetti, coltivati all’interno delle proprie famiglie. I ragazzi hanno risposto a un bando dell’ufficio educazione del MAXXI nel quale non era richiesta una competenza specifica, tra di loro è stata “selezionata” anche Beatrice che studia e vive a Roma ed ha in comune con gli altri del gruppo il requisito base: l’amore per l’Africa. “Attraverso l’intensità e la ricchezza dell’arte africana, la mostra – dice nel comunicato stampa la presidente del Maxxi Giovanna Melandri – evidenzia la bellezza e le contraddizioni delle città e del mondo di oggi. Oltre 100 lavori di 34 artisti africani diventano così gli elementi di una città immaginaria, di un percorso che tra fotografia, installazioni, sculture, tessuti e video, restituisce il caos, la ricchezza, le sfaccettature dell’identità contemporanea africana e globale”.FOTO arazzoIl punto di ritrovo dove incontrare i ragazzi è l’installazione Le Salon Biblioteque di Hassan Hajjay, l’Andy Wharol africano, che riproduce all’interno della mostra, lo spazio di una libreria dal sapore marocchino, dov’è possibile riposare, conversare, leggere. Uno ad uno faccio conoscenza con loro. Salah è l’unico di questo gruppo (ma si alternano a seconda dei giorni), arrivato in Italia da un anno e mezzo, dopo essere fuggito dal Sudan su uno dei tanti barconi dei disperati. Parla perfettamente l’italiano è un bel ragazzo alto e dinoccolato con degli occhi immensi che sembrano profilati con il kajal. Ne ha passate tante prima di ritrovarsi mediatore culturale al Maxxi, ma – dice – “chi davvero vuole andare avanti a trovare la sua strada, chi è determinato ad arrivare fino in fondo, ce la fa”. A lui è andata piuttosto bene, comunque, perché sceso dal barcone come rifugiato è stato accolto in una casa gestita dal Progetto Arca con altri ragazzi (“poveracci come me”). Poi però, si è messo subito in moto per avere il permesso umanitario e lo ha ottenuto in un anno. “Ho incontrato persone accoglienti – racconta – che mi hanno fatto sentire come a casa mia, si sono comportate benissimo con me, come se fossi un qualsiasi amico dei loro figli”. Tra questi un professore dell’università la Sapienza dove ora studia Social media.FOTO LIBRERIADunque ne è valsa la pena – chiedo a Salah – affronteresti di nuovo il rischio del viaggio? “No – risponde Salah sorprendendomi visto l’esito positivo della sua “impresa” – non credo che lo rifarei, quando sono partito non avevo idea di ciò che avrei dovuto affrontare. Ora che lo so, che l’ho vissuto sulla mia pelle, non avrei probabilmente più il coraggio di partire”. Salah ha scelto l’opera dell’artista del Camerun, Maurice Pefura: “Non stop city” che evoca l’idea della crescita inesorabile della città. “Mi ricorda il mio paese – dice – il Sudan. Al centro ci sono i palazzi del “potere” di metallo lucido che si differenziano dagli altri in semplice legno dove la gente stenta a sopravvivere”.FOTO NON CITY STOPJuru, 30 anni, capigliatura rasta e occhialetti di metallo da intellettuale, studia Cooperazione Internazionale allo Sviluppo, anche lui alla Sapienza. E’scappato dal Rwanda con i genitori quando era ancora molto piccolo. Oggi è italiano a tutti gli effetti. Anche lui è convinto che per i ragazzi africani e rifugiati funzioni allo stesso modo che per quelli che sono nati in Italia. “Anche qui ci sono i Neet (not engaged) – dice – quelli che non studiano e non lavorano e non seguono corsi di formazione. Solo chi vuole, afferma Juru convinto – può riuscire a fare qualcosa, a prescindere dal colore della pelle e dalla situazione…”.FOTO GIAPPONESE Io sono africano in cinese lui e’ della Sierra Leone si apre ai cinesi e scrive in franceseMagari, però, fosse solo un fatto di buona volontà… Alexandra che è diplomata all’Accademia di Belle Arti e viene da Bari dove ha vissuto fin da piccola con la sua famiglia che è di Capoverde, un lavoro fisso lo sta ancora cercando e ha risposto al “bando” del Maxxi proprio per ampliare le possibilità di trovarne uno, anche cambiando città. “Avendo studiato Belle Arti – mi dice – cioè avendo avuto una formazione classica, sto imparando molto, anche sull’Africa, da questa mostra che mette in rilievo le contraddizioni di un paese che si sta rapidamente modernizzando”. Insieme ad Alexandra, Beatrice mi mostra le Falling House, le case sospese a testa in giù di Pascale Marthine Tayou, che possono essere interpretate mi suggeriscono le due ragazze – positivamente come un’esortazione ad aprirsi all’esterno alle altre culture, o negativamente come un sovvertimento del mondo in cui viviamo.FOTO FALLING HOUSEFathou Sokka è originaria del Senegal, è una studentessa di 23 anni ed è nata a Roma, vive in famiglia dunque ancora non deve misurarsi con problemi esistenziali. “Certo per me è diverso – aggiunge – io sono nata qui, sono “madrelingua” italiana e so “difendermi” se serve, non vivo le difficoltà di chi è appena arrivato dall’Africa che viene di solito trattato in un modo molto differente”. Fathou ci parla dell’opera del Wharol africano, la libreria – salotto dove ci siamo incontrati.La ragazza sul motorino non mi sembrava avesse a che fare niente con l’Africa – dice – invece poi guardando bene si nota la stoffa del vestito che indossa che è africana e il cappello.. così come il motorino che è di quelli molto usati nelle strade delle capitali africane. Il tutto, però, condito da una vernice modernista.FOTO RAGAZZA SULLA MOTO Road to justiceMettendo in dialogo opere della collezione permanente del MAXXI con altre scelte per questa occasione, la mostra Road to justice, a cura di Anne Palopoli, da vedere fino al 14 ottobre prossimo, offre un’ulteriore riflessione sui temi del postcolonialismo, della memoria e dell’identità africana. In mostra 11 lavori di 9 artisti ( John Akomfrah, Marlene Dumas, Kendell Geers, Bouchra Khalili, Moshekwa Langa, Wangechi Mutu, Malik Nejmi, Michael Tsegaye e Sue Williamson). Video, dipinti, fotografie, installazioni che si articolano in tre aree cronologiche, riferite al passato, al presente e al futuro, alternando visioni personali e tradizioni. In uno scenario passato, i temi sono quelli della schiavitù, del capitalismo, della segregazione, con riferimenti agli stereotipi della rappresentazione di persone “di colore” nell’arte figurativa occidentale. Nel presente l’apartheid, i movimenti di liberazione, il tema della migrazione e il recupero da traumi di cui siamo ancora oggi testimoni. La proiezione sul futuro presenta diverse riflessioni: dalla visione apocalittica del nostro pianeta nel video The End of eating Everything (2013) di Wangechi Mutu alla speranza che si manifesta attraverso l’esaltazione del perdono come forza liberatrice nell’opera It’s a Pleasure to Meet You (2016) di Sue Williamson, quello stesso perdono che Nelson Mandela sosteneva dovesse essere la principale risposta ai crimini dell’Apartheid, per poter intraprendere un percorso di riconciliazione nazionale.