La seconda generazione, l’apolidia e la cucina che unisce: sfogliare i libri umani per combattere i pregiudizi

È una mattinata caldissima di giugno, sabato per la precisione, quando, nascosta dalle vie infuocate della città, la Biblioteca Vaccheria Nardi, a poca distanza dalla fermata metro S. Maria del Soccorso sulla Tiburtina, offre un momento di quiete e di respiro. Sembra un enorme casale di campagna, la biblioteca, circondata dagli alberi e dal verde. Sul cortile antistante, diverse coppie di persone stanno sedute una di fronte all’altra. Parlano. Gesticolano, si guardano, sorridono. Stanno leggendo. O meglio, l’utente della biblioteca sta leggendo il libro vivente che, all’entrata, ha scelto di consultare. La biblioteca vivente si compone di libri umani: “Lo scopo di questo progetto”, spiega Ulderico Maggi, coordinatore di Biblioteche Viventi e Presidente di ABCittà, “è quello di far riconoscere ai lettori i tanti giovani di seconda generazione nella loro dimensione umana e iperplurale. Questo meccanismo è fertile perché riesce a creare connessioni tra le persone. E il racconto si singoli episodi della vita è quello che si imprime nella testa e nel cuore del lettore. Lo scopo di queste biblioteche è proprio quello di partire dalle persone, perché prima di cambiare la legge, dobbiamo cambiare il nostro modo di porci di fronte alle diversità, per costruire una cittadinanza del cuore”.Il tema del libro è unico: le storie di seconda generazione. I generi sono invece differenti, lingua e stile altrettanto variegati. C’è l’imbarazzo della scelta, ma alla fine, tempi di prestito permettendo, riusciamo a prenotare due libri: “Senza Patria” e “In Cucina”.“Senza Patria” è “un libro vivente” di 27 anni, di origini serbe. “Mi chiamo Roberto, apolide da sei anni”. L’incipit è sintetico, ma instilla fin da subito nel lettore tante domande. Che vuol dire essere apolidi? “Essere apolidi vuol dire non avere una patria, non avere un punto di riferimento”. “Sono nato a Roma, da madre serba. Mia madre però non era regolare qui in Italia. Quando è morta, avevo 13 anni, sono rimasto orfano e ho continuato a crescere in una casa famiglia”. Poi, le scuole superiori: l’Istituto Tecnico Commerciale e l’inizio di una disperata ricerca di indipendenza, di libertà, e di riconoscimento dei propri diritti. “Gli ultimi cinque anni li ho passati tra i tribunali civili. Le spese sono state tante, mille euro solo di marche da bollo!”. Roberto parla inglese, serbo e italiano, ha un master post-diploma in “Front-office”. “Il master mi ha aiutato tanto ad aprirmi con la gente. Ora riesco a comunicare con tutti e anche a parlare più apertamente di me stesso”. Roberto grazie al master, inizia subito a lavorare: cameriere, barista, commesso. Lavora a chiamata, in diversi quartieri romani, che conosce molto bene: zona portuense, Monteverde, Trastevere, Centocelle. “Mi sento bene a Roma. Ho amici, mi dedico alla mia passione, che è la musica Techno, Hardcore, Hip Hop. Scrivo dei pezzi col software Fruity Loops. Mi sento integrato qui, la mia cultura di appartenenza è quella italiana. Adoro Roma e ho visitato anche altre città italiane: Milano, Napoli, Salerno, Bologna…e poi, amo il bellissimo mare della Sardegna, dove mi ha portato un’operatrice della casa famiglia”.“In Serbia ci sono i miei parenti e mio fratello. Ho pensato di andare a vedere da dove provengo, vorrei andare a trovare la mia famiglia, ma al momento ci sentiamo per telefono… ma non vivrei in Serbia, ho deciso di stare qui in Italia, lavorare onestamente per ottenere un giorno finalmente la cittadinanza italiana. In questo paese gli apolidi sono 15.000, in tutto il mondo ce ne sono 10 milioni. Ma la strada è dura… Servono dieci anni di residenza e un contratto di lavoro a tempo indeterminato”. Roberto prova a immaginare di scrivere le sue pagine future. “Da qui a dieci anni mi vedo in Italia, con un lavoro onesto. Mi piacerebbe studiare giurisprudenza. A scuola in diritto me la cavavo bene”. Le pagine più tristi del libro sono quelle che raccontano le discriminazioni subite: “Di pregiudizi razziali ne ho affrontati tanti, sia a scuola che sul lavoro. Mi dicevano: Sei serbo? Ah quindi sei uno zingaro”.Lo slogan delle Biblioteche Viventi è quello di Albert Einstein, anche lui apolide dal 1896 al 1901 dopo aver rinunciato ad acquisire la cittadinanza tedesca: “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. Roberto oggi, con la sua determinazione e la sua buona volontà, è riuscito a spezzare molti pregiudizi. “Io penso che per giudicare una persona devi mangiarci insieme pane e cipolla”. “Ma è un detto serbo?”. “No, è un detto mio! Serve del tempo per conoscere una persona…io credo che con la mia storia potrei insegnare qualcosa agli altri”.“Senza Patria” è un libro dallo stile semplice e asciutto. Ma ogni riga fa nascere nel lettore tante domande, tante riflessioni e lo pone di fronte alle difficoltà quotidiane di un apolide. E il finale, ancora da scrivere, apre le porte a un grande sogno, quello di diventare un cittadino.