Il centrocampista Tedros Medhane: correre non stanca

Tedros Medhane
Tedros Medhane

Ride Tedros Medhane, ventiseienne eritreo, mentre spiega perché ama il suo ruolo: “un centrocampista corre sempre, prepara il gioco agli attaccanti ed è prima barriera nella difesa”. Il mister lo chiama Pedro accostandolo al giocatore del Barcellona, primo nella storia ad aver segnato in sei competizioni diverse nello stesso anno solare. Ciò lo diverte ma nello scegliere calciatori modello fa il nome dell’attaccante Eto’o del Camerun e del centrocampista Sneijder della nazionale olandese e dell’Inter, squadra che Tedros segue. “Quando sono arrivato in Italia vinse la Champions League. Rimasi colpito dalla loro bravura e decisi che li avrei tifati. Nei campionati internazionali sostengo il Manchester”.

Il Campionato d’Eccellenza e la vittoria. La sua squadra Sporting United, composta da giovani rifugiati, ha vinto il 26 aprile il campionato d’Eccellenza. La finale giocata contro la FAO non ha deluso le aspettative, è stata una partita sudata fino all’ultimo rigore confermando la bravura delle squadre che avevano concluso il primo incontro con un sofferto pareggio. “Questo è il primo anno che gioco con la Sporting United. Il mio amico Amine mi ha coinvolto, adesso vive a Venezia e non gioca con noi.” I ragazzi lavorano e alcuni vivono presso il centro di seconda accoglienza Enea insieme a Tedros. “Ci vediamo solo per le partite, durante la prima abbiamo avuto delle difficoltà, non avevamo l’allenatore. Adesso è diverso e i nostri mister sono bravissimi” conclude con ammirazione. Il gruppo si è affiatato ed è decollato. Ci si chiede quanto diventerebbero bravi con allenamenti costanti.“La FAO ha fatto un gioco più studiato. I ragazzi della Sporting United erano meno organizzati ma era evidente la loro forza” racconta Irene, la cronista di Piuculture che ha seguito la lunga partita di ieri. I rigori di prassi non sono bastati, si è andati ad oltranza e quello decisivo è stato segnato e poi parato dal portiere Mamadou diventato il re della vittoria. “Tedros non ha solo dimostrato di saper tenere alto il gioco ma anche la tensione. Il primo rigore è stato lanciato da lui ed è andato in porta”.

Due vite per Tedros. “Nel 1996 quando avevo dodici anni ho giocato in un campionato internazionale con la squadra di Mendefera, la mia città. Siamo stati in Svezia e in Norvegia”. E’ tornato in Europa nel 2008; ha corso per raggiungerla non sul campo di calcio bensì lungo il Sudan, la Libia e le correnti del Mar Mediterraneo.  Poi, la barca avvistata dalla guardia costiera è stata portata a Lampedusa, Tedros si è raccontato e ha cominciato una nuova vita; quella di rifugiato politico. “In quegli anni non imponevano rimpatri immediati. Sono stato fortunato. Mi hanno trattato bene”. Arriva così a Roma, prima al centro Baobab vicino la stazione Tiburtina e, da due anni, in via Boccea al centro Enea di seconda accoglienza. “All’inizio mi diedero i documenti ma per sei mesi sono stato senza un alloggio. Ho sofferto tanto. Anche per la ricerca di un lavoro ho fatto tutto da solo”. Viveva ad Asmara studiava Matematica all’università sognando di diventare insegnante, adesso lavora cinque giorni su sette, fa le pulizie. Il weekend, con gli amici e compagni di squadra, segue le partite in un bar vicino al centro accoglienza che ha l’abbonamento sky e ogni domenica va nella sua chiesa pentecostale di riferimento. “La religione è importante e ringrazio Dio perché sono stato fortunato”. Tedros è stato fortunato perché è riuscito a scappare dalla cascina in cui lo avevano rinchiuso insieme ai fedeli con i quali stava pregando. Da quel momento ha ripreso a correre e non avrebbe potuto più fermarsi. Essere pentacostale in Eritrea è uno dei tanti motivi di persecuzione. “La nostra fede non piace perché per noi la comunità è importante, preghiamo sempre insieme e facciamo molte cose condividendole”.

Nel deserto non si può correre. Inizia la fuga. Risalire i confini e gli spazi disegnati sull’atlante non è cosa facile. Ci sono i chilometri, quelli veri, i monti le valli il deserto; e gli uomini. Bisogna nascondersi. “Fortunatamente eravamo in tanti, quattrordici, tutti eritrei, così l’organizzazione del viaggio è stata leale. In Sudan avevamo un complice che ci ha organizzato la traversata. Poi ci sono stati i 15 giorni nel deserto”. Qui Tedros si interrompe. I suoi occhi guardano altrove. Per magia o empatia, chissà, ma in quel silenzio ripercorro il tragitto. Nel suo sguardo si intravede il deserto e qualcosa di profondamente doloroso. Fa male anche a me. Parlo d’altro toccandogli la mano per riportarlo a Roma, nel bar vicino al centro Enea dove due anziani fanno chiasso con Mira, la cameriera che conoscono da sempre. Le macchine e gli autobus riprendono ad affollare l’incrocio in cui ci troviamo e il succo di mirtillo ritorna ad avere il suo sapore fin troppo dolce.

Le libertà inesistenti. Reporter senza frontiere ha reso noti i risultati della classifica mondiale sulla libertà di stampa 2011-2012. L’Eritrea è ultima in classifica 175°, peggiore anche della Corea del Nord, di Myanmar e del Turkmenistan. “I giornali e le televisioni private sono state chiuse. Ricordo quando nel 2001 manifestammo ad Asmara. Il governo ci aveva chiesto di lavorare per il censimento della popolazione. Avremmo accettato se ci avessero pagato. Le autorità pretendevano che interrompessimo gli studi e lavorassimo gratuitamente. La manifestazione è stata repressa con la violenza. Molti studenti vennero rinchiusi per due mesi a Wia prigione di Massaua”. La stampa ne parlava e la risposta fu chiudere tutte le testate private. “Da allora non ce n’è una che non sia governativa”.

Scusi, sa indicarmi dove si trova il futuro? La Costituzione, seppur approvata nel 1997, è in stand by. “Si nascondo dietro la questione della guerra, ma i disordini sono a sud, non è l’intero paese ad esserne coinvolto e comunque la guerra è solo un alibi”. I giovani, maschi e femmine, finita la scuola vengono obbligatoriamente mandati a Sud nel campo di battaglia. “Mio fratello maggiore finiti gli studi a Sawa è stato mandato in guerra. E’ morto lì”. Sawa è il centro educativo e militare allo stesso tempo che sostituisce le scuole civili, è obbligatorio, ragazze e ragazzi vi arrivano a soli quindici anni. Il fratello minore invece ha diciotto anni e in questo momento corre come Tedros, per evitare la guerra sta attraversando il Sudan. Il volto di Tedros si oscura in preoccupazione, ma sono in contatto e sa che sta bene. “Ho chiesto se posso fare il ricongiungimento familiare, mi hanno risposto che potrei farlo con mia madre, non con lui. Adesso guadagno meno di cinquecento euro al mese e vivo in una quadrupla; non è momento di ricongiungimento”. La mamma di Tedros vive sola a Mendefera, suo marito e un suo figlio sono morti e si tiene aggiornata sugli altri due. Lei è ortodossa e non ha problemi legati alla religione. “Grazie a internet, a Facebook riusciamo a tenerci tutti in contatto. E di quelli che non ce l’hanno abbiamo notizie grazie al passaparola”. Così Tedros sa di suo fratello, della madre e degli amici sparsi per l’Europa.

Correre non stanca “Fino al ’98 l’Eritrea era un paese meraviglioso, lo ricordo. Poi la guerra contro l’Etiopia ha fatto crollare tutto”. Roma da subito gli è sembrata familiare, “Asmara è stata costruita dagli italiani, l’architettura è molto simile”. Ma è l’Italia non è l’Eritrea e questo Tedros non lo dimentica mai, eccezion fatta quando corre. “Sono felice di aver ripreso a giocare a calcio. Quando sono in campo dimentico tutto, mi rilasso, sto bene”. Tedros è felicissimo della vittoria conquistata ieri, dice che sono stati fortunati. Troppo spesso parla di benevolenza del caso; chiaccherandoci ed osservandolo giocare si direbbe che non è solo questione di fortuna c’è anche una grande dose di forza ed intelligenza.

M. Daniela Basile(06 luglio 2012)