Sanità: prove tecniche per l’intercultura

Paese che arriva, salute che trovi. Alla luce della mutata composizione demografica italiana il sistema sanitario nazionale (SSN) e il concetto di salute necessitano profondi ripensamenti. Oggi gli immigrati sono l’8-10% della popolazione e nel 2050, secondo previsioni Istat, saranno oltre il 21%.L’8-9 aprile si è svolto a Roma un corso accreditato ECM (Educazione continua in medicina), rivolto cioè alla formazione di chi opera nella Sanità; tema degli incontri, promossi dalla Scuola Regionale della Croce Rossa Italiana del Lazio, La diversità culturale in ambito sanitario.

Le fondamenta. L’Organizzazione Mondiale della Sanità indica che la salute non è semplice assenza di malattia o disabilità: è completo benessere fisico, mentale e sociale.In Italia, il cardine della tutela della Salute è l’art. 32 della Costituzione che promuove per tutti, anche immigrati clandestini, il diritto alla cura in quanto non tutela il cittadino, ma – distinzione fondamentale – l’individuo. Prescrive che collettività e singolo siano tutelati entrambi: la salute di ciascuna delle due parti procede infatti  solo se in sinergia all’altra: la prevenzione delle epidemie ad es. si basa sulla la cura dei singoli con potenzialità infettive.

Ostacoli e problemi. I problemi di applicazione del principio costituzionale sono vari specie per l’immigrato: anche le singole regioni, pur uniformate a direttive nazionali, possono rispondere in modo più o meno efficace ai bisogni del migrante.Innanzitutto gli immigrati per provenienza, lingua, cultura, religione sono diversissimi tra loro e socio demograficamente il loro profilo muta tanto rapidamente da rendere inadeguati  gli attuali sistemi informativi e connessa rilevazione dei loro bisogni.Talvolta si pensa che gli immigrati portino malattie dai propri Paesi di provenienza. Eppure il migrante al suo arrivo è giovane e sostanzialmente sano. In Italia dopo periodi di permanenza non brevi il migrante si ammala per lo più di patologie che sono proprio le nostre: la cattiva salute dunque non è di partenza ma acquisita.Le ragioni sono la povertà e la precarietà abitativa, lavorativa, alimentare, psicoaffettiva. Lo sradicamento culturale, le barriere linguistiche, relazionali, burocratiche complicano la vita e l’accesso al sistema sanitario, pur legalmente garantito. Quindi patologie comuni, dermatologiche, traumi da lavoro, infezioni sono i problemi principali che talvolta fanno pendant con la tanto manifesta quanto invisibile marginalità sociale di detenzione e prostituzione.

Se la pasta non va giù Un problema forse meno intuibile è il cambiamento drastico di dieta nel paese ospite. A pesare non tanto la scarsa qualità o penuria di cibo, bensì proprio l’alimentazione tipo italiana, nettamente più calorica e più povera di fibre. L’immigrato in media riceve più zucchero, più sale, più grassi, meno ortaggi, cereali, frutta, frutta secca. E a disputare una partita impari con il “made in italy” ci si mette anche la genetica e la cultura. Le etnie di Sud America, Asia del Sud ed Africa hanno una conservazione dei grassi più efficiente della nostra, ma le loro diete ne contengono molti di meno; i cinesi metabolizzano male latte e derivati. Per il secondo fattore, quello culturale: il cibo, la cucina sono simboli e tradizioni, spesso di matrice religiosa, con connessi tabù alimentari. Di fatto una tradizione alimentare è molto meno malleabile dell’abbigliamento, della lingua e della fede stessa … forse un meccanismo di difesa antropologico visto che nello stivale i ricoveri gastroenterologici sono i più frequenti per il maschio migrante.

Biomedicina, questa sconosciuta L’80% della popolazione mondiale continua a curarsi con metodi tradizionali. Sciamanismo, massaggi, salassi, medicina degli umori, cinese, erbe, clisteri, etc … sono presenti nelle forme antiche o rivisitate, in tutti Paesi, “sviluppati” e non. La distanza medico/paziente diviene così più forte davanti all’immigrato che spesso viene da zone dove la biomedicina non è il sistema principale e non gode di autorevolezza.

Mediare, cioè etimologicamente “stare/porsi nel mezzo”. Così chi, mediatore, infermiere, medico entra in contatto con lo “straniero” deve “spostarsi” dalla propria prospettiva per “avvicinare” quella dell’altro. In questo senso bisogna relativizzare la propria cultura della salute il che non significa disconoscere i pregi della biomedicina. Significa mettersi in condizione di comunicarla, renderla più efficace, mutuando dai metodi tradizionali gli aspetti di sicura validità, come la considerazione della persona nella sua interezza che tende a rendere questa più partecipe della propria terapia.

Marco Corazziari(20 aprile 2011)