Il colombiano Carlos Gaviria è uno dei tre registi presenti questa settimana nella capitale in occasione dello Scoprir Duemilaundici, seconda mostra del cinema iberoamericano di Roma, la sei giorni organizzata dall’Istituto Cervantes in collaborazione con le ambasciate interessate. È qui per parlare del film Ritratti in un mare di bugie (Retratos en un mar de mentiras) proiettato alle 19 di oggi al Palazzo delle Esposizioni.Un road movie che è dramma esistenziale e sociale sugli sfollati (i desplazados) della Colombia insanguinata da decenni. Del 2009, suo primo lungometraggio di finzione: l’esperienza forte di Gaviria è nei documentari. E se la porta dietro.Miglior Film Iberoamericano nel Festival messicano di Guadalajara, non è una première italiana: il film è già approdato al Giffoni Film Festival nel luglio 2010, nel 2011 a marzo al Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina di Milano e a settembre al Premio “Città di Venezia”, di quest’utlimo per altro vincendo il riconoscimento. Ma, guidati da Gaviria, abbiamo voluto meglio cogliere il legame tra risvolti psicologici, scelte narrative, registiche e genesi della trama stessa. Trama che è distruzione della memoria collettiva degli sfollati colombiani e che il regista rende in soggettiva attraverso la giovane protagonista Marina (l’attrice e modella Paola Baldión Fischer, miglior attrice al Festival di Guadalajara, ndr) e il coprotagonista, il cugino Jairo (Julián Román), imbranato fotografo ambulante.
Un’attualità che distrugge i ricordi d’infanzia. Io ho vissuto molto tempo fuori dalla Colombia – dice Gaviria – Volevo realizzare un film sul mio Paese, per me era fare un confronto tra i miei ricordi dell’infanzia prima di partire, il ricordo di quello che per me era un Paese meraviglioso e la realtà, opposta a quella che era la mia percezione “protetta” di bambino. Un luogo della memoria pieno di vita che sbatte contro la realtà. Ed essendo un film sulla Colombia non potevo non parlare del conflitto: e se negli anni questo conflitto è divenuto sempre più totalizzante fino a divorare la nazione intera, nel film avviene lo stesso …Un’idea che trova un corpo ma non parole. Da un’idea iniziale per lo più nata dentro di me, il film poi si è un po’ alla volta materialmente incarnato negli input provenienti dalle persone reali con cui sono entrato in contatto al mio rientro. Da un punto di vista documentario per cui la preparazione del film è passata attraverso la raccolta di un insieme di storie di persone che hanno visto morire conoscenti, amici o proprio la famiglia; questo ha indirizzato in specie il finale del film. Sono stato anche consigliato da uno psichiatra colombiano che ha lavorato con molte persone con stress post- traumatico.Marina la protagonista, è senza memoria, non parla, è almeno nelle manifestazioni “afasica”: una strategia narrativa? Per quale significato?È un cammino drammatico all’interno del personaggio, è una ragazza che non sa quel che le è successo e con lei lo spettatore. Inizialmente non è chiaro il perché dell’afasia; certo l’ipotesi di quello che tecnicamente si definisce stress post traumaticodelle vittime della guerra risulta palpabile ma non dichiarato.E’ un fenomeno tipico di chi si chiude al mondo, non riuscendo più a parlare: io non sono un sociologo, non saprei fornire i dati statistici esatti, ma è un fenomeno frequente nella popolazione colombiana. La strategia del terrore di fatto agisce così: punta a creare delle persone morte in vita incapaci di rivendicare diritti, di esprimersi, di organizzarsi, di lottare … tutte le persone intervistate avevano problemi psicologici molto gravi che si manifestavano in diversi modi: alcolismo, violenza, introversione completa. Uno stato molto simile a quello del personaggio, incapace di parlare e di relazionarsi.Così come per altri elementi del film anche per Marina, c’era già un’idea sulla carta: un personaggio con un’evidentemente scollatura percettiva ed espressiva dal mondo. I tratti particolari però, la gestualità, alcune connotazioni somatiche, la tendenza alla ripetitività verbale sono fenomeni rilevati nei volti e modi di fare degli intervistati.Viene in mente l’autismo …Beh, l’autismo si presenta dalla nascita, quel che descrivo io è acquisito, deriva da un trauma emozionale, ma per rendere l’idea, effettivamente presentano caratteristiche molto analoghe.Finzione che documenta. Tutto il viaggio è stato quasi tutto fatto in modo documentario, non avevamo cioè i soldi per costruire settings veri e propri, lo abbiamo fatto in un paio di casi e già questo di per sé è stato molto oneroso. Molte delle auto, del traffico, che si vedono sullo sfondo sono documentari né più né meno … non ci si poteva obiettivamente permettere di fermare tutto per il film. Di fatto il “documentario” è totalmente mimetizzato nella finzione, ma le conferisce un realismo notevole: so di spettatori rimasti impressionati.Molta gioia, nutrita solo di presente. A far da controcanto, sia nel minutaggio filmico che sul piano simbolico, al mondo interiore, introspettivo, della ragazza, ci sono gli spaccati di vita del suo compagno di viaggio, il cugino. Jairo rappresenta l’altra faccia del Paese, felice, allegro, che non vuol vedere. E tutto il tempo dice: “Non vediamo questo, vediamo la parte felice del mondo …”. Questa felicità non è un’invenzione: il clima di festa, un po’ come nel Brasile, in Colombia è molto presente. Un presente con un dubbio futuro e non perlustrato.A un occidentale, vista la nostra condizione geopolitica tutto ciò sembra impossibile, ma è così. Anche in senso comparativo: se si verifica il percepito soggettivo degli abitanti colombiani quel che emerge è che in media si sentono più felici di un europeo o un italiano“Felicità” e felicità. Marina verso la fine del film riacquisisce parola e memoria dei traumi della violenza. Era senza emozioni e diviene cosciente, mentre la gioia di Jairo suona superficiale e incapace di miglioramento… alla fine lui muore ed è lei in qualche modo che lo accudisce. La felicità secondo lei è un ostacolo, un velo che impedisce di vedere la realtà?No, non direi questo. Ovviamente va distinto il tipo di felicità. Personalmente per me la felicità, quando è reale, è fatta di conoscenza, quindi non è affatto un ostacolo alla comprensione e all’affrontare il reale. Altra cosa è il non vedere: se tua moglie ti tradisce e tu non vuoi vedere, puoi essere felicissimo, però non è realtà, è un altro paio di maniche cioè: questa felicità è sorda, vuota. Non è vedere, non è crescere.
Marco Corazziari (6 ottobre 2011)
http://www.youtube.com/watch?v=wfSxRrkEl94