Reza Ganji e Jean Claude Mbede sono giornalisti professionisti. L’uno iraniano e l’altro camerunense, accomunati da una forte passione per il loro mestiere e da un difficile presente da rifugiati politici in Italia. Due storie diverse che, contro la repressione dell’informazione, diventano un unico grido di denuncia, riecheggiato lunedì scorso alla Facoltà di Scienze della Comunicazione durante il convegno “Media e diritti umani, come fare informazione”.Iran- Camerun, due paesi lontani e vicini. In Iran durante la campagna elettorale per le presidenziali tutte le manifestazioni popolari sono state tollerate dal governo ma “subito dopo il risultato delle votazioni è iniziata una forte repressione. Giornalisti e attivisti sono stati arrestati, e molti sono dovuti scappare come me” spiega Ganji, che ha iniziato la sua carriera da giornalista nel 1998, ed è in Italia da meno di due anni. “Ho lavorato per molti giornali nel mio paese. Tutti sono stati chiusi nel giro di pochi mesi, perché giudicati troppo riformisti. In Iran questa è la normalità. Giornalisti e direttori finiscono in carcere – continua – anche solo per aver nominato l’ex presidente Mohammad Khatami”, considerato da molti il primo capo di stato riformista iraniano. Ma non solo Mahmud Ahmadinejad risulta intoccabile dalla stampa. Cambia il paese ma le repressioni sono sempre le stesse: “in Camerun il presidente Paul Biya, 79 anni, è al potere da 29, dopo 10 anni da premier e 15 da ministro. Se scrivi qualcosa contro il suo governo diventi immediatamente un nemico pubblico, che deve essere eliminato; come è successo ad un mio collega morto in una carcere, e al mio amico, che mi ha trasmesso la passione per il giornalismo, ucciso in America. Casi di questo tipo sono innumerevoli in Camerun” ha raccontato Mbede, fuggito dal suo paese tre anni e mezzo fa, dopo esser stato arrestato e torturato perché fondatore di una radio indipendente giudicata dal governo troppo scomoda. Ora vive a Milano con sua moglie e le sue due bambine di otto e tre anni.La libertà di stampa. In Iran l’articolo 24 della costituzione prevede che: “le pubblicazioni e la stampa hanno la libertà di espressione, salvo quando sono dannose ai principi fondamentali dell’Islam o ai diritti del popolo”. Una definizione che nei fatti ha avuto varie e soggettive interpretazioni: “Io e i miei colleghi abbiamo sempre operato – ha raccontato Ganji – nei limiti della legge. Eppure, solo perché responsabili di testimoniare la verità dei fatti, molti giornalisti entrano ed escono dal carcere di Evin, un inferno della tortura. Come se in Italia arrestassero tutti i giornalisti che hanno parlato del movimento del popolo viola”. Anche in Camerun la costituzione garantisce il multipartitismo e la libertà di informazione, ma la realtà è un’altra, come ha rivelato Mbede: “Prima di fondare la mia radio, lavoravo per un’emittente televisiva privata, che apparteneva al fratello minore del premier. Per un mio servizio su una manifestazione di protesta degli studenti, che ha portato in piazza molti altri ragazzi, sono stato convocato da un ministro che mi ha minacciato con una pistola. Questo è quello che succede, nel migliore dei casi, se non ci si conforma all’informazione istituzionale”.Il passato, il presente, il futuro Nonostante il passato fatto di violenze e torture, ed i pericoli in cui incorrono tuttora, il presente di Ganji e Mbede è fatto di un costante impegno professionale per costruire un futuro migliore, dove siano garantiti i diritti fondamentali dell’uomo. “Il rischio, specialmente per il Camerun dove manca una società civile organizzata , è che i fatti di corruzione, di assassini di stato, di tortura, rimangano all’interno dei confini del paese. Il ruolo della stampa deve far fronte alla mancanza di democrazia. Tutta l’opinione pubblica deve sapere, e noi giornalisti in esilio combattiamo per questo” conclude Mbede.
Melissa Neri(22 Novembre 2011)