Miracolo a Le Havre è una favola ironica sull’integrazione firmata da Aki Kaurismäki, regista finlandese che stavolta si addentra nei sobborghi della Francia del Nord. All’ultimo Festival di Cannes il film si è giocato fino all’ultimo la Palma d’Oro con The tree of life di Terrence Malick, conquistando comunque il premio Fipresci.
Le Havre è una cittadina sulle coste della Normandia, qui lavora come lucida scarpe Marcel (André Wilms), ex scrittore dalla vita bohemien, che passa le sue giornate in piedi alla stazione, guardando in basso il via vai di scarpe, sperando che qualcuna si fermi. Siamo ai giorni d’oggi: nonostante il suo mestiere stia scomparendo, 20 euro al giorno Marcel riesce a portarli a casa. Qui lo aspetta la moglie Arletty (Kati Outinen), silenziosa e sofferente, e la cagnolina Laika. I due si adorano con garbo e devozione. Intorno alla loro piccola casa, un microcosmo di pub e negozietti, gestiti da amici. Un giorno Marcel incontra Idrissa, ragazzino in fuga dall’Africa stipato dentro un container che per sbaglio si è fermato in Normandia, a un solo stretto di Manica da Londra, dove vive sua madre. Riesce a fuggire dalla polizia – “armato e pericoloso?” si chiede il giornale locale – e così incontra Marcel, che da uomo che vive e lavora sulla strada, lo nasconde in casa adottandolo come un figlio.
Il film è la rappresentazione di una piccola lotta di classe – Marcel Marx, un nome, un programma – contro le innumerevoli e sempre più dure legislazioni sugli immigrati – ammassati, scortati, spiati, arrestati. Ma forse non a caso il regista ha voluto il set in Francia: dopo quattro nuove leggi in pochi anni, il divieto di velarsi, sgomberi coatti e la Jungle di Calais. Leggi talmente rigide che nemmeno riescono a trovare l’escamotage del buon senso. Penso all’Italia stavolta, alla ragazza senegalese violentata che denuncia il fatto e per tutta risposta viene infilata in un Cie, che non potrebbe avere nome più odioso di “Centro Identificazione ed Espulsione”.
Qualcuno l’ha definito un film “illusorio”: “non è la realtà”. Ma è proprio su questo che Kaurismäki non si arrende. Il fruttivendolo che si è stufato di far credito a Marcel, e poi cambia idea con un’inaspettata cassetta piena di ogni genere di ben di dio. Un aiuto che in fondo è semplice: cibi in scadenza, perché buttarli se si può aiutare qualcuno? Non è la realtà, ma potrebbe esserlo. Anche il commissario di polizia (Jean Pierre Darrouissin) è irreale, ma solo perché per una volta preferisce al generale senso del dovere il suo personale senso etico. E irreale, esilarante con quell’aria antica avvolta in un trench durante la scena dell’ananas. Indimenticabile.
Kaurismäki ci racconta l’amarezza della vita che può essere scossa proprio dall’irreale. Alla fine di fronte a un cancro “restano i miracoli”, dice il medico ad Arletty, ma lei gli risponde “non nel mio quartiere”. E Marcel che chiede a Idrissa: “Hai pianto?”, “No”, “Bravo, non serve a niente”. Eppure nella vita le cose succedono e possono anche andar bene. Alla fine quale sia il Miracolo a Le Havre non è ben chiaro, probabilmente sono almeno tre. Arietty, Idrissa e il ciliegio. E il senso di serenità nel vedere un ragazzo che smette di nascondersi, esce dalla stiva di una barca, e viaggia finalmente così, col vento in faccia, verso il suo nuovo futuro.
Alice Rinaldi
(30 novembre 2011)