Un grande seminterrato aperto tra Italia e Cina

Marco Wong e Elsa

Domenica 19 febbraio. Superati due campi di pallacanestro, dove ragazzi e ragazze bivaccano, scherzano, parlottano, in mezzo a un andirivieni concitato di genitori, si entra nell’edificio e dopo un breve saliscendi di scale, ci si ritrova nell’ampio seminterrato a due “navate”: la più grande, a destra, destinata a sala teatrale.

Sono due domeniche che gli spettacoli vengono rinviati causa neve,  non questa volta , visto che nel seminterrato si fatica persino a camminare: centinaia di volti con gli occhi a mandorla di tutte le età, bebé nelle braccia della mamma, bambini, teenager, su su almeno fino agli under 60, oscurano completamente la “navata” teatro ed occupano buona parte dell’altra: sono prime, seconde e terze generazioni cinesi di Roma e forse non solo. È la chiusura,  posticipata, del loro capodanno ospitata dall’ istituto comprensivo Manin, nei pressi di piazza Vittorio, nel quartiere Esquilino.

G3, un “romanaccio” che vale oro. Da tempo la scuola Manin nel pomeriggio offre un doposcuola di cultura cinese alle generazioni più giovani, che nate qui, spesso – e qualche volta, per umana risposta vista la distanza cultural alfabetica tra Italia e Cina,  volentieri – la ignorano.
Sono loro, le terze generazioni, che rompono il tappeto sonoro sinofono dello spettacolo, del chiacchiericcio misurato e composto dei più adulti, con un italiano dal volume meno contenuto e con quell’infiltrazione,  giocosamente ostentata, di romanaccio, prerequisito di ogni buona comitiva capitolina che si rispetti. Ma per queste ragazze e ragazzi è anche molto di più. Un fondamentale, delicato, sudatissimo e socialmente oneroso passepartout per dialogare e far dialogare una comunità immigrata tra le più chiuse. Tanto che le loro G2 degli anni ’80-‘90, le cosiddette seconde generazioni, che in buona parte delle comunità immigrate riescono a far breccia nel muro linguistico del paese che  le ospita, nel caso cinese spesso non ce l’hanno fatta.

Rappresentando. “Le rappresentazioni sono state studiate sulla base degli insegnamenti nei doposcuola e sulle passioni di alcuni studenti ed ex-studenti” spiega Marco Wong ingegnere sulla cinquantina nato in Italia e da sempre attivo nella mediazione per la comunità cinese “Nei corsi per esempio, oltre al cinese, si insegna anche ballo, mentre il canto è un passatempo molto apprezzato attraverso il karaoke. Questa è la ragione per cui vi sono diverse esibizioni di voce e di danze. Gli sketch comici, hanno una funzione specifica: un modo per dimostrare il grado di fluidità raggiunto con il cinese appreso nella scuola.

Il modello delle rappresentazioni e delle scenografie sono simili a quelle degli spettacoli televisivi per le feste del capodanno lunare cinese: ci sono balli che comprendono bambini molto piccoli, spettacoli comici e danze che si ispirano al folclore o agli usi delle minoranze etniche cinesi. Quasi tutti i costumi sono un omaggio a queste tradizioni,  in linea con la tendenza politica della Cina odierna che lavora per la costruzione di una “Società armoniosa”
Un altro richiamo ad analoghi spettacoli delle tv cinesi è  la presenza di “italiani doc” che parlano cinese. Questo in Cina, oltre a essere una nota di colore, è anche un modo per fare vedere il  crescente interesse per il cinese da parte degli stranieri.
In Italia questo ha un ulteriore significato simbolico, indica  apertura, dialogo, amicizia e interesse tra le varie comunità che condividono lo stesso territorio.
Questi elementi teatrali sono comuni a entrambe le scuole che si sono esibite, quello che cambia è il numero di spettacoli e di studenti coinvolti.”

Percezione, entusiasmi, interessi. “Sono rappresentazioni popolari, dirette, comprensibili anche per un italiano: a voi possono magari sfuggire alcuni richiami alla tradizione dell’opera di Pechino, che è stata evocata in uno degli spettacoli, oppure il tipo di danze che si rifanno alle tradizioni cinesi. Alla fine l’intento comune è quello che caratterizza tutte queste iniziative scolastiche di immigrati, e non: offrire ai genitori un motivo di orgoglio per i risultati ottenuti dai figli.
Ovviamente il modo di vivere l’evento varia a seconda dell’età: la differenza è palpabile nell’entusiasmo diverso sugli spettacoli auto organizzati e gestiti dai ragazzi rispetto a quelli che seguono la regia degli insegnanti. Il gruppo di musica leggera composta dalla band di ragazzi, o il ragazzo cantante accompagnato dalle ballerine di hip hop hanno scatenato l’entusiasmo dei giovani, mentre i  genitori hanno apprezzato di più altre esibizioni. Per le prime generazioni è importante che i loro figli non perdano la conoscenza linguistica e culturale del paese di origine, mentre per le seconde il bello sta nell’incontrarsi con persone che condividono lo stesso vissuto.”

Gli ideogrammi arrivano dopo. Dalla prima “navata” il palco è divenuto rapidamente invisibile, se non con precari stratagemmi: in punta dei piedi o sedie come rialzo che costituiscono un ostacolo, un  muro per lo spettatore tardivo.
“Noi apprendiamo solo ora il linguaggio degli ideogrammi e non è semplice: quel che invece conosciamo dalla nascita è un parlato cinese che però non è quello ufficiale ma un dialetto che differisce a seconda delle famiglie. Tra dialetti e lingua ufficiale cambia solo la pronuncia, il modo di scrivere grosso modo invece è identico solo che la scrittura noi la stiamo apprendendo ora con il doposcuola”
Nicola (Yunyu), Michael (Maike), Luca (Mingjia), Fabio (Zhengyu) e Xian:  cinque ragazzi sui 16 anni, che come molte G3 si presentano con un nome (acquisito) italiano. Talvolta una traduzione più o meno esatta di un nome inglese che nella comunità è in uso sin dalla nascita. Tutti e cinque con parenti provenienti dallo Zehnjiang, la regione sudest della Cina che genera quasi tutta l’immigrazione in Italia.

 “Non percepiamo l’hip-hop come un elemento estraneo o esotico. Così come per vari generi musicali italiani mescolati a quelli internazionali e americani  per noi ascoltarli è del tutto normale. Per i nostri genitori ovviamente spesso sono “cose” strane e culture estranee.
Seguiamo anche il k-pop, il korean pop: questo è meno noto, ma comunque è un interesse che non coinvolge solo i cinesi, ma molte culture. Nel nostro tempo libero invece stiamo prevalentemente tra di noi, ragazzi cinesi intendo.”

Elsa. Un anello di congiunzione tra cultura/danze underground, cultura nostrana e vari ragazzi che frequentano il doposcuola è Deng Xueying, o meglio Elsa e quasi solo Elsa viene chiamata, visto che a differenza dei suoi coetanei lei da due anni è totalmente immersa in un tessuto non strettamente comunitario: a contatto cioè con italiani e altri immigrati. E anzi lei agli spettacoli alla Manin di questa domenica è principalmente per lavoro: insegna alle G3 balli hip-hop e sta vedendo come procedono le danze.
24enne, della zona di Honk Kong, giunta da quattro anni in Italia e da due a contatto con l’onlus Ali (Arte Lavoro Integrazione), una compagnia artistica che per lei è stata una realtà fondamentale. Le ha fatto mutare notevolmente traiettoria esistenziale e professionale visto che ora si sta perfezionando per l’appunto come insegnante di danza e pensa di iscriversi al D.a.m.s. mentre aveva iniziato degli studi a Scienze Politiche, poi decidendo – o forse confermando a sé stessa –  che non era proprio la sua vocazione: “La famiglia cinese per tradizione spinge quasi sempre a studi economici, commerciali o giuridici. Io già prima dei 20 anni quando ero in Cina sentivo che non era quello che faceva per me. Non è stato facile, ma ora sto iniziando anche a guadagnare i primi soldi. … per altro questo sta anche  tranquillizzando un po’ i miei.”

Marco Corazziari  
(23 febbraio 2012)