Se un’équipe sanitaria affronta Babele e la spiega al medico di famiglia

Dalla locandina del corso

 ” L’85% della popolazione mondiale non ha mai visto un medico e mai lo vedrà” è la frase di R.Dawood, esperto di medicina dei viaggi, che si legge in cima a una slide del seminario Il medico di medicina generale e la medicina delle migrazioni promosso dall’Inmp del S. Gallicano di Roma  il 18 febbraio e il 3 marzo. Per una cultura come la nostra, che intorno a messaggi di prevenzione – spesso non privi di contraddizioni – quotidianamente si fonda, questa frase suona già come uno scacco comunicativo e operativo a chi fa propria la prospettiva della medicina cosiddetta “occidentale”, la biomedicina.

La questione poi si complica se una parte di questo 85% inizia a migrare e giunge in Italia, come ormai da oltre 10 anni sta avvenendo, così da far divenire l’immigrato l’8 % della nostra popolazione.In tal caso il medico di famiglia, il medico di medicina generale (MMG), assume volente o nolente un ruolo cruciale. Prima  guida verso un sistema sanitario nazionale,  il Mmg diviene nell’Italia multiculturale, quello che nelle parole di Roberto Testa, Dir. Sanitario dell’Inmp (Istituto Nazionale per la promozione della salute delle popolazioni Migranti e il contrasto delle malattie della Povertà), è “un gatekeeper strategico”.

Questo il senso profondo e d’attualità della due giornate si seminario Ecm. Due sabati per descrivere culture della salute, tra loro distantissime, accomunate dalla loro parziale estraneità alla biomedicina “occidentale”. Il primo sabato dedicato all’Africa e all’America Latina, il secondo all’oriente e all’est europa.

Viva la complessità: la complessità viva. La panoramica che andrebbe fornita dovrebbe essere  complessissima: il merito specifico dell’Inmp è quello di riuscire a semplificarla e illustrarla.

Con una storia alle spalle ormai di vari anni, dislocata tra Lazio, Puglia e Sicilia, anche in zone di frontiera (Lampedusa), l’Inmp è un calderone di esperienze di avanguardia nella direzione della salute del migrante/straniero: non è un caso che una discreta percentuale degli speech pur contribuendo alla letteratura dedicata, derivino dall’esperienza “sul campo”.

È esemplificativa dell’intero approccio dell’istituto la metodologia esposta dalla Romano, neuropsichiatra infantile, che dal 2009 si prende cura e studia casi di minori dell’est Europa : “Il nostro gruppo di lavoro opera all’interno del Servizio di Clinica Transdisciplinare, sperimentando un dispositivo complesso di diagnosi e cura in cui la transculturalità e la transdisciplinarietà rappresentano i fuochi intorno ai quali si costruisce la collaborazione tra le figure professionali coinvolte: medico, psicologo, mediatore culturale e antropologo. Il riconoscimento della natura poliedrica dell’identità degli esseri umani, psico-fisica, individuale/collettiva, storico-politica ed economica, pubblica/privata, ha stimolato nell’Istituto l’interesse verso l’incontro/confronto tra differenti saperi che, meticciandosi, provano ad interpretare e a dare risposta alle domande di aiuto ed ai bisogni riferiti. Pertanto, la presenza nel gruppo di lavoro del Servizio delle figure del mediatore culturale e dell’antropologo, interrogandosi costantemente sui contesti di produzione del malessere riferito dalla persona, alimentano nel gruppo quella tensione verso la complessità celata dietro ogni segno/sintomo di ‘disagio’ individuato dal clinico.”

Arrivare “di sponda” alla biomedicina. Ed è così che Suzanne Diku, congolese ginecologa all’Inmp, nel fare un breve excursus su medicina e cultura del suo continente patrio fa uno speech che lei stessa definisce “più che altro un viaggio, un’insinuazione di un dubbio nella platea. Non mi interessa fornirvi concetti o nozioni:  vi offro una prospettiva diversa dalla quale guardare e percepire la medicina che conoscete e praticate. Oggi io, medico, faccio l’antropologa”. E, prendendo spunto dalla cultura Bantù, parla di cose che apparentemente non appartengono al medico: cultura, religione, costumi.

Si inerpica nello spiegare a una platea fatta di medici di famiglia e infermieri che l’africano per sua storia e tradizione è teotropo e che quindi il nero ateo è un prodotto tutto coloniale: perché  lo dice a operatori del Ssn?

Perché proprio per questa visione, l’africano vede connessa salute, collettività e dio. E dio usa la parola, come gli sciamani/curatori che per curare alla parola aggiungono l’uso delle mani.

Insomma, come per molti speech di questa due giorni, all’input biomedico ci si giunge “di sponda” a partire da variabili per nulla organicistiche, fisiologiche, “scientifiche”: la Diku ci sta dicendo che lo stupore archetipico di un africano verso una biomedicina come la nostra che invece per curare grosso modo non usa né mani né parola può potenzialmente influire molto negativamente sulla compliance di un paziente dalla pelle scura.

Il dialogo tra il nostro medico e questo paziente cioè parte zoppo, con una sorta di nocebo strutturale dato dalla distanza antropologica: questo paziente stenterà a credere in una cura simile e quindi la cura sarà meno efficace. Salvo … “rifiutarsi di dedicare solo il quarto d’ora standard a un paziente. Noi a ginecologia le donne le ascoltiamo, le facciamo parlare. Noi non vogliamo giungere solo a una prescrizione, se volessimo solo questo saremmo inefficaci:  non esiste presa in carico di nessun paziente, tanto più migrante, senza una profonda educazione sanitaria. E questo richiede tempo”

Contro ogni miopia disciplinare. Procedere “di sponda”, significa rendersi conto che (possibilità di vivere in) salute e cultura interagiscono tanto invisibilmente quanto pesantemente. E se una ginecologa deve fare antropologia, allora Miriam Castaldo, antropologa, con esperienze di ricerca nel centro e sud america, apre le slides calcando sulla matrice da scienza biologica della sua disciplina. In sistemi culturali e sociali in cui l’evidence based non ha preso piede, tipologie diagnostiche ad es. come lo stress post-traumatico e la tensione nervosa, prendono altri nomi e vie curative. L’espanto diviene così la categoria “diagnostica” messicana per qualificare un grosso spavento in grado di “rubare l’anima”: una madre che secondo le categorie della sua comunità ha vissuto un espanto con tutta probabilità si rifiuterà di allattare un figlio, perché secondo la loro cultura l’espanto si passa nel latte. Guai poi a togliere un filo rosso dal corpo di un messicano: supposta protezione contro il “malocchio”, trattando questo “amuleto” in modo profano è probabile creerete più di un problema all’equilibrio psicofisico del vostro paziente. Influirete cioè sulla sua salute. Negativamente.

Se Laura Piombo, biologa nutrizionista, trova quindi appropriato e naturale parlare di umami e riti/cultura del cibo bangladesho, filippino e cinese per arrivare solo “di sponda” a indicare le implicazioni strettamente alimentari e gastroenterologiche di questi popoli al momento dell’arrivo nel BelPaese, dal canto suo Gennaro Franco, dermatologo all’Inmp, forse anche lui vestendo a tratti i panni dell’antropologo e dell’assistente sociale, fa una carrellata spettacolare sui fraintendimenti “cutanei” di matrice culturale. In alcuni popoli del sud america sono in uso cure che producono lievi ustioni sulla pelle: molto simili a scottature di sigaretta, Franco riporta casi di bambini allontanati, per timori di abuso, dai genitori: genitori, che in realtà – anche se a modo loro – avevano al contrario cercato di prendersi più che cura dei loro figli.

Marco Corazziari(15 marzo 2012)