Colpevoli di viaggio verso una Fortezza Europa inespugnabile

Je ne veux pas retourner en Libye | Photo Enrico Dagnino | www.parismatch.com

«O gente! Dov’è la via di fuga? Il mare è dietro di voi e i nemici sono davanti a voi. In quel che dico non v’è, per Dio, se non verità e pazienza» Ṭāriq ibn Ziyād

“Nella questione migratoria si guarda sempre da cosa si scappa – fame o guerra – ma sono più importanti i desideri che le vie di fuga, non ciò che ci è successo ma ciò che vogliamo che ci succeda”. A primo impatto può sembrare un idealista, Gabriele Del Grande, toscano, viaggiatore, giornalista e scrittore di 30 anni, fondatore e curatore dal 2006 di Fortress Europe, blog-osservatorio sulle vittime dell’emigrazione. Ma la sua visione sulla realtà, toccata con mano, è semplicemente lucida.

Gabriele Del Grande | incontro presso la Biblioteca di Villa Leopardi | Roma, 30 maggio 2012

Barca, amore mio, portami via da questa miseria. “Si tende troppo a guardare al passato, mentre guardare al futuro è l’atteggiamento giusto che appartiene ai giovani e alla modernità. Pico Della Mirandola diceva, l’uomo è scultore di sé stesso“: sei un ragazzo, “semplicemente ti ribelli a stare in spazi di vita stretta. Andare via è una scelta, è dare importanza all’avventura e al rischio. In circa 20 anni di emigrazione, lungo le frontiere d’Europa sono morte circa 20mila persone, chi parte lo sa, ma credono fermamente che valga più la pena giocarsi la vita che non fare nulla. A Tunisi c’è un fermento culturale molto forte oggi. Gira della musica lì come ad Algeri o a Casablanca… tormentoni rap in cui si canta: Barca, amore mio, portami via da questa miseria. Non si parte solo per cercare lavoro, ma anche solo per cercare aria. Ricordiamoci che: da noi sarà vietato entrare, ma in Tunisia è vietato uscire, noi li chiamiamo ‘clandestini’, loro si chiamano harraga, letteralmente quelli che bruciano (la frontiera)”. In qualsiasi modo vengano chiamati, il risultato è che da una parte e dall’altra, italiani e tunisini, ne parlano male…

Odyssey of immigrants through Greece | Giorgos Moutafis photojournalist

Quelli che restano e quelli che bruciano la frontiera. Nella piccola Biblioteca di Villa Leopardi si crea un’atmosfera raccolta e informale, mentre si prepara la proiezione di un corto di Alexandra D’Onofrio, curato da Fortress Europe, sulla difficoltà alla mobilità, al ricongiungimento, alle famigerate permanenze nei Cie, per cui si usa l’acronimo, visto che Centri di Identificazione ed Espulsione sarebbe troppo odioso da ripetere ogni volta: della serie, da qui si torna indietro, non vi aspettate di poter andare avanti, verso il futuro. “Pensare che quando chiesi ’chi fu il primo harraga?’, mi risposero Ṭāriq ibn Ziyād, condottiero berbero che nell’VIII secolo partì alla conquista della Spagna”, all’epoca visigota, “e una volta arrivato disse proprio: bruciate le barche, non si torna più indietro“.

Quelli che possono scegliere dove vivere e quelli che no. Il corto – originariamente un audio-documentario montato con foto e video dal cellulare del protagonista – si intitola L’amore ai tempi della frontiera e parla di Nizar, tunisino e Winny, olandese. Marito e moglie, decisi a vivere a Tunisi, proprio quando la città si stava sollevando contro Ben Ali. La loro casa era spesso colpita e Winny era incinta. I due decisero allora di cambiare i loro progetti di vita, ripiegando su una più tranquilla Amsterdam, ma la realtà è che le decisioni sulla propria vita di alcune persone non valgono un fico secco rispetto a decreti flussi, Cie, visti e una serie infinita di stereotipi. Nizar affronterà un pericoloso viaggio in mare, rimarrà bloccato dentro una ‘gabbia’ del Cie, percorrerà kilometri da clandestino: 3 mesi e mezzo prima di poter riabbracciare finalmente Winny. Un abbraccio che non è stato reso possibile certamente dalle carte, ma solo dal desiderio…

Le 'gabbie' del Cie di Trapani | foto di Gabriele Del Grande

È il desiderio che muove il mondo. Gabriele è autore di Mamadou va a morire (2007), “un libro di denuncia e indignazione, raccoglie l’inizio del mio lavoro, ricco di dati sui naufragi. Il contatto fortunato con la Infinito Edizioni lo rese possibile, come il successivo, Il mare di mezzo (2010), che ha una visione più matura e complessa del Mediterraneo”. Ma il peso specifico della ricerca di Gabriele sembra crescere continuamente, perché non è facile cogliere la giusta prospettiva, quando tutto il mondo cerca di fartene vedere un’altra. “Ci sarà un terzo libro, ma l’ultima parte del mio lavoro ha un approccio totalmente diverso, basato sulla ricerca del simile. Normalmente sull’emigrato, si passa dalla retorica della disperazione a quella della feccia, ma nessuna delle due è giusta. È il desiderio che muove il mondo, “come fu l’approccio del femminismo”, commenta entusiasta una signora del pubblico, “ovviamente finché ci sono giovani capaci di mettere in gioco tutto”.

Colpevoli di viaggio? La differenza la fa l’estetica e il punto di vista. “Chi viaggia non è né disperato” – la prospettiva del volontariato – “né criminale” – la prospettiva di molte politiche. “Chi viaggia, in certe condizioni, è un eroe. Eppure questi eroi li mettiamo in gabbia” – they put me in a cage, dice Nizar. “Magari se vieni dalla Somalia puoi sfoggiare la carta del rifugiato, ma dalla Tunisia? Sei colpevole di viaggio. E che reato è? Metà degli immigrati che abbiamo in Italia sono polacchi, rumeni, albanesi, perché ora possono entrare da noi senza bisogno di visto, ma cosa cambia con gli altri?” Forse bisognerebbe davvero rivalutare Ulisse/Tariq. “Anche il volontariato sbaglia ed è molto triste”, commenta Angela Bruni, responsabile della Biblioteca, “quando ci mostra per esempio bambini che muoiono di fame, mentre normalizzare è il primo passo per non vedere l’altro come un poveraccio, perché considerarlo tale è esattamente il modo per vederlo come altro da noi”.

morte in mare | foto di Giorgos Moutafis

Genitori che hanno pagato la morte dei propri figli. “Ma come trovano i soldi per intraprendere un viaggio del genere?” chiede il pubblico. “In qualsiasi modo”, risponde Gabriele, “c’è chi si ammazza di lavoro, chi vende dei beni, chi chiede prestiti a parenti già in Europa, a usurai, ai  propri genitori – tanti vivono un senso di colpa enorme se poi hanno perso i propri figli in mare. Per approntare il viaggio ci sono organizzazioni di contrabbando, ma anche autorganizzazioni, intere palazzine o comitive di amici che intraprendono la traversata da soli”.

La mitologia dell’Italia. “L’accoglienza e il rimpatrio ci costa per ogni persona circa 30mila euro, come fosse gente da assistere, ma non è così, sono giovani totalmente autosufficienti, il problema è quando vengono criminalizzati, perché loro hanno il sentore di non poter tornare a casa a tasche vuote – nel tempo si è diffusa una sorta di mitologia dell’Italia – e alla fine si criminalizzano sul serio, per poter sopravvivere”.

La morte del giornalismo di frontiera e l’autocensura. “Non c’è più il giornalismo di frontiera, ma un ‘circo’ di comunicazione tra agenzie”, Fortress Europe fortunatamente è diventata una fonte importante. “Ma ciò che regola il giornalismo alla base, travia l’informazione”: rimanendo in ambito naufragi, Gabriele ci fa soffermare sull’enorme copertura mediatica che riguardò la Costa Concordia, 30 morti e 2 dispersi, mentre in quello stesso mese – gennaio 2012 – si registrarono ben 9 naufragi tra Grecia, Spagna, Libia, Marocco ed Egitto per un totale di 328 persone, tra cadaveri e dispersi. Senza nulla togliere al dramma della prima e senza voler dare ai numeri il peso di una tragedia, sta di fatto che la copertura dei naufragi da emigrazione si pone su un equilibrio totalmente sbilanciato verso il silenzio. “Io non credo che nella stampa italiana ci sia censura, c’è più autocensura, forse si sottovalutano i lettori, si fanno delle scelte su come valorizzare il lavoro, e ciò che riguarda il mondo sempre più spesso non viene preso in considerazione”.

Scritta nel Cie di Modena | foto di Gabriele Del Grande

Avete mai provato l’euforia della libertà? Dopo la caduta di Ben Ali, in Italia sono arrivati un sacco di tunisini. A tutti sembrava paradossale, ma nessuno si è sprecato a capire il perché. “Non potendo spiegare questa ondata inaspettata con la categoria del disperato, la si è spiegata con quella della feccia: tutti, compresa la borghesia tunisina, dicevano che gli emigranti erano gentaccia. In realtà erano quelli che avevano fatto la rivoluzione, la gente dei quartieri popolari, gli ultras… una volta ottenuta la libertà erano come andati in delirio di libertà, in senso buono, l’impossibile era finalmente possibile, e così tutti questi ragazzi dai 17 ai 30 anni son partiti. Si vedevano riconosciuto finalmente un diritto, il diritto di essere cittadini della modernità. ‘Perché non potrei andare a trovare mio padre?’ Magari erano lì tutti insieme a bere una cosa al bar e hanno deciso di partire. Ma di tutti quelli arrivati, la maggior parte sono tornati, circa 5-6000 tunisini. Anche perché da noi la situazione non è molto facile da subito”, come dimostrano i Cie.

La normalità del viaggio. “È necessaria allora un’estetica diversa della frontiera, è solo viaggiare, e oggi più che mai lo fanno tutti. Ancora una volta chi giustifica pensa al passato dicendo, ‘anche gli italiani erano un popolo di immigrati’, come se non fosse evidente che anche oggi, ragazzi italiani, sentono la necessità di spostarsi in tutto il mondo. Sono queste persone che ci insegnano una sorta di dimensione frivola del viaggio. La normalità del viaggio“. Perché l’Africa non può viaggiare? “Dovrebbe essere riconosciuto come un diritto fondamentale dell’uomo, una sorta di avanguardia politica. La mobilità oggi è potere, il passaporto è accesso”. E forse dovremmo anche smetterla con queste manie da protagonismo: “l’Italia spesso è solo un corridoio” che invece sembra porsi a difesa di questa Fortezza Europa, inespugnabile, come un Cerbero, tre teste che simboleggiavano la distruzione del passato, del presente e del futuro.

Alice Rinaldi(30 maggio 2012)

http://www.youtube.com/watch?v=EQ-7-nH6-ek