Stampa italiana e islam, analisi contro i luoghi comuni

Paolo Di Giannantonio del tg1

“Dopo l’11 settembre mi sono messo a studiare come un universitario attempato”, afferma Paolo Di Giannantonio, giornalista del tg1 e socio dell’Istituto per l’oriente C.A. Nallino, dove il 24 maggio si è tenuto l’incontro “La stampa italiana e l’islam”, nel quadro della settimana della cultura islamica. “Rispetto a Gran Bretagna e Francia noi non avevamo avuto rapporti con il mondo arabo, se non per raccontare gli sbarchi di immigrati”. Da allora le cose sono migliorate “oggi siamo tutti più preparati, specializzati”. Per vedere il bicchiere mezzo pieno “conosciamo di più rispetto ad altre realtà, come quella cinese, con cui non ci si interfaccia, nemmeno con quelli che vivono in Italia. Non si sa molto sulle regioni da cui provengono, né le motivazioni che li spingono a farlo”.

Schemi da guerra fredda e 11 settembre Fino al 1989 il mondo bipolare ha condizionato i rapporti con l’islam, “anche il terrorismo palestinese veniva trattato in quest’ottica, non si capiva esattamente cosa ci fosse dietro”, continua Di Giannantonio. “Arafat era una figura di grande fascinazione per la stampa. Le difficoltà ad incontrarlo lo rendevano quasi un Padreterno. Quando gli interlocutori sono diventati i leader islamici radicali le cose sono cambiate, erano meno lusinghieri con i giornalisti e noi non avevamo gli schemi per capire il nuovo che avanzava”. L’11 settembre ha stravolto ogni prospettiva, “dieci anni prima gli Stati Uniti bombardarono un popolo cristiano, i serbi, per difendere i bosniaci musulmani, adesso una cosa del genere sarebbe quasi impensabile”, aggiunge Toni Capuozzo, vicedirettore del tg5 che seguì in prima persona l’assedio di Sarajevo di venti anni fa. “Lì le ambasciate dei paesi musulmani sono tra le più grandi, hanno capito l’importanza di avere buoni rapporti con l’Europa. Ci sono troppi luoghi comuni, sia sull’equazione fondamentalismo – che in alcune forme è innocuo – uguale terrorismo, che sull’islam moderato, trattato spesso con toni paternalistici. Ma l’informazione è anche specchio di chi la guarda e l’opinione pubblica è rassicurata dai ruoli prestabiliti”.

Toni Capuozzo durante un collegamento da Amman per il tg5

Il protagonista catalizzatore Il giornalismo allo stato attuale è troppo emergenziale, “già dopo una settimana sembra di sapere tutto su un avvenimento ed è già ‘vecchio’”, prosegue Capuozzo. “E se non c’è un testimonial, un personaggio che attiri l’attenzione, l’interesse svanisce”. Un esempio è Bouazizi, il tunisino che, secondo la stampa occidentale, dandosi fuoco avrebbe dato l’inizio alle proteste contro il regime di Ben Ali. “Un mio amico in Tunisia sostiene che sia stato ‘costruito’ dai media esteri, che avevano bisogno di un nome che fosse il pilastro della narrazione. I protagonisti sono stati centinaia, noi li abbiamo condensati in uno”.

La fine della figura dell’inviato L’allarme lanciato da Di Giannantonio è sulla progressiva sparizione degli inviati nei media: “la stessa Rai sta chiudendo molte corrispondenze, si va sul posto a vedere realtà per troppo poco tempo”. Sull’Egitto “non stiamo lì nemmeno un mese per capire e interpretare la campagna elettorale alla vigilia delle presidenziali. Dei paesi del nord Africa si dovrebbe parlare tutti i giorni. In Marocco ho visitato la regione dei monti Atlas, da dove vengono circa il 90% degli immigrati maghrebini nel nostro paese, è stata un’esperienza incredibile, storie del genere devono essere raccontate”. “Abbiamo perso una generazione, dagli anni ’90 ad oggi”, aggiunge Alberto Negri, del Sole 24 ore, “nel giornalismo come in altri settori culturali, perché non c’è stata una classe dirigente sensibile. Abbiamo una decina d’anni per rimediare, perché si torni a fare una formazione valida per i giovani”.

Alberto Negri del Sole 24 ore

L’assenza di politica estera La vaghezza della corrispondenza dall’estero è per Negri riflesso di una politica estera inesistente. “Fino agli anni ’80 si cercava sempre di difendere gli interessi del paese. Oggi l’Italia è la prima a lasciarseli scappare. La rivolta in Libia è stata trattata in maniera superficiale, perché la nostra politica è stata contraddittoria. Prima abbiamo firmato il trattato di pace con Gheddafi, poi l’abbiamo bombardato. Le nostre posizioni sono appiattite su quelle degli Stati Uniti e di Israele. Accettiamo tutto, anche le sanzioni all’Iran che ci hanno fatto perdere molte opportunità economiche. E pensare che nel 2004 loro volevano proprio l’Italia come interlocutore europeo al tavolo sul nucleare, poi stufi di aspettare i tentennamenti, hanno invitato la Germania. Tutto quanto si riflette e condiziona anche i rapporti con l’islam”.

Gabriele Santoro(25 maggio 2012)