Stephen Marley, reggae nel nome di Jah

Stephen Marley e Jasmin Karma (da examiner.com)

Si presenta sul palco di Roma incontra il mondo a Villa Ada con l’antica bandiera dell’Etiopia, gridando “I want some freedom” (voglio un po’ di libertà) il cantante reggae giamaicano Stephen Marley, secondogenito 40enne del grande Bob Marley, che negli anni ’60, parlando nei suoi testi di emarginazione e libertà per l’Africa, rese il genere popolare in tutto il mondo, originario proprio della Giamaica, discendente dallo ska come variante del rocksteady. Un concerto allegro, capace di attrarre un pubblico supermisto tra donne e uomini, italiani e stranieri, adulti e bambini.
Stephen inizia a suonare all’età di 6 anni, collaborando successivamente con Julian e Damian, gli altri due fratelli che seguirono la carriera musicale del padre. Bob Marley ha avuto in tutto 13 figli: 11 da 9 mogli, tra cui Rita da cui ne ebbe tre, compreso Stephen, più due adottati da due relazioni di quest’ultima. Il suo amore per l’hip hop e l’R’n’B lo porta a mescolarli con il reggae, in una compilation dedicata al padre, Chant down Babylon (1999), operazione che da molti fu considerata “blasfema”, ma proprio da qui iniziò il suo successo con il pubblico. Con il ritorno al reggae puro convincerà anche la critica, vincendo per ben cinque volte il Grammy Award, uno dei premi più importanti degli Stati Uniti, compreso quello come Best Reggae Album per il suo ultimo lavoro Revelation pt. 1 – The root of life. Proprio con il singolo, realizzato con la cantautrice canadese Melanie Fiona, Marley apre il concerto: No cigarette smoking (in my room). Qui, e in questo tour europeo, con Jasmin Karma, The Love Queen, come viene chiamata, australiana, canta le sue canzoni in inglese, giapponese e spagnolo. In molte canzoni reggae giamaicane il riferimento al consumo di marijuana è frequente: formalmente illegale, in realtà è ampiamente tollerata, dato che è consumata dal 70% della popolazione, rappresentando una componente importante della religione più diffusa in Giamaica, il Rastafarianesimo…

L’antica bandiera reale etiope, con il Leone di Giuda nel centro

Il Rastafarianesimo è un movimento spirituale e culturale, nato negli anni ‘30 del Novecento, ispirato alla fede religiosa ortodossa etiope di origine ebraico-cristiana – in un periodo in cui si rivendicava il recupero della dignità culturale e nazionale degli africani, annientati dalla deportazione e dalla schiavitù – e alla figura dell’ultimo Negus dell’Etiopia, Ras Tafari, che in amarico significa “capo da temere”, salito al trono nel 1930 sotto il nome di Hailé Selassié I: 5 anni dopo dovette far fronte all’invasione italiana. 225esimo discendente della dinastia Salomonide, attraverso la linea di David, appartenente alla Tribù di Giuda, Hailé Selassié è considerato il “difensore della fede”: identificato come il Messia nero, l’incarnazione di Jah, il Dio supremo, venuto sulla terra per liberare la popolazione nera, come profetizzato da Marcus Garvey, leader principale del Rastafarianesimo. Il Kebra Nagast è il testo sacro.

Il Kebra Nagast ebbe origine a partire da una serie di testi sionisti trascritti nei primi secoli dell’era cristiana. La principale fonte su cui è basato questo primo nucleo è l’Antico Testamento, ma elementi furono tratti anche da testi rabbinici, leggende etiopi, egiziane e copte. Successivamente furono introdotti frammenti dal Corano ed elementi dalla tradizione araba (principalmente palestinese e siriana), nonché testi cristiani apocrifi. Insomma, una vera e propria “mezcla” culturale e religiosa.

Bob Marley

Nelle canzoni reggae i riferimenti a questa filosofia di vita sono evidenti: in Jah Army, Stephen non solo si definisce “soldato dell’esercito di Dio”, ma parla anche del King of Kings, il Re dei Re, ancora Hailé Selassié, definito in altre canzoni – come in Iron, Lion, Zion dello stesso Bob Marley – Leone di Giuda, quello che appare nella vecchia bandiera reale etiope. Un altro termine ricorrente nei suoi testi e in quelli reggae in generale è Babylon. Con questo termine il Rastafarianesimo identifica il mondo occidentale bianco. Soprattutto il sistema economico capitalistico imposto da questa società che si contrappone a Zion, la terra promessa (identificata con l’Etiopia) che un giorno accoglierà il popolo di Jah. Il re di Babilonia, Nabucodonosor, fu infatti colui che distrusse il Tempio di Salomone deportando gli ebrei nella capitale.
I rastafariani sono comunemente conosciuti per i cosiddetti dreadlocks, lunghe e spesse trecce che caratterizzano alcuni fedeli. I Rasta utilizzano la marijuana come erba medicinale, ma anche meditativa, apportatrice di saggezza, ausilio alla preghiera. Si sostiene che l’erba ganja, come viene chiamata in Giamaica, sia cresciuta sulla tomba del Re Salomone, il Re Saggio, e da esso ne tragga forza. La Marijuana è anche associata all’Albero della Vita e della Saggezza che era presente nell’Eden a fianco all’Albero della conoscenza del bene e del male.
Al grido di “Italy, do you love Bob Marley?” (Italia, ami Bob Marley?), durante il concerto non mancano ripetuti omaggi al padre, da Three little birds a Buffalo soldier, da Jammin’ a Redemption song, da Could you be loved a One love. In questo clima di pace, che solo i concerti reggae sanno regalare, tra il pubblico c’è chi andava ai concerti di Bob Marley e ora a quelli di Stephen, pur di risentire la sua voce – tra i fratelli è sicuramente quello con il timbro vocale più simile, se chiudi gli occhi sembra proprio di sentirlo: due signore brasiliane scatenatissime e una italo-francese con indosso un gilet. Glielo regalò Bob Marley in persona.

Alice Rinaldi
(12 luglio 2012)