La Festa del Sacrificio e le donne musulmane non arabe

“E tu? Tu lo faresti? Sacrificheresti tuo figlio se Dio te lo chiedesse?” gli occhi di Fatma vacillano, poi si abbassano e dice “Farei qualsiasi cosa mi chiede il Signore.” Chissà se tale risposta è dettata dalla speranza che, come fu per Abramo, un Angelo potrebbe interromperla: “Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male. Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio.”

Caravaggio, Il Sacrificio di Isacco

Fatma viene dalla Tunisia e oggi, venerdì 26 ottobre 2012 si trova in via della Moschea 85 per la Festa del Sacrificio che, insieme al giorno di chiusura del mese di Ramadan, costituisce la più importante ricorrenza per l’Islam e coincide con il decimo giorno di Dhul-hijja, mese in cui andrebbe fatto il pellegrinaggio alla Mecca. Ha quarantadue anni, due figli maschi e, mentre gli uomini sono altrove, beve del thé insieme a un gruppo di amiche di origine somala. Chiacchierano e offrono la bevanda calda, portata da casa, alle donne sedute vicino a loro; non molte in verità.

Sono isolate dal resto, si tengono lontane dalla confusione festosa che fermenta nel cortile della Grande Moschea e nel mercato, che oggi è più bello del solito: le bancarelle sono numerose, i dolci sembrano brillare nel loro giallo oro, la carne emana un odore pieno e aspro. Inoltre, per l’occasione, in vendita ci sono anche oggetti per la casa: dai bicchieri agli orologi da muro; con incisioni in arabo, naturalmente. Come in ogni occasione importante, coppie di uomini tendono lenzuoli davanti al cancello di entrata; passando i fedeli lasciano se vogliono un’offerta.

Dove le donne sono più timide. Fatma, Marian, Halima, Abiba e Kadija si rifugiano nella quiete del piccolo atrio sul retro, dal quale si accede in uno degli spazi riservati alla preghiera delle donne. E’ qui che si manifesta la libera complicità femminile. Marian – quarantenne sposata con un italiano e madre di tre figli – ha le palme di mani e piedi resi color vino dall’henne, porta lo chador nero e suoi occhi grigi spiccano sulla pelle somala. Spiega come si uccide il montone, rituale rispettato quando si ha la possibilità economica e culturale. In Italia le famiglie non riescono a comprare una pecora viva per poi ucciderla. Di solito è l’uomo della famiglia che se ne occupa: sgozza l’animale, lascia che tutto il sangue fuoriesca, toglie la pelle, separa testa e gambe e infine rimuove le interiora. “Insieme con mio padre e mia madre facevamo con del nastro dei bei fiocchi attorno alle corna,” dopodiché si cucina. In quasi tutte le tradizioni, sia arabe che sud sahariane che sud asiatiche, la carne è cotta con semplicità, arrostita o fatta a spiedini. L’islam infatti è diffuso in Paesi con differenze molto ampie: dall’Egitto alla Somalia, dal Pakistan alla Siria, dall’Iran al Senegal. E’ nel sugo e nel pane che si colgono le differenze delle singole tradizioni culinarie. Alla festa del Sacrificio non sono legati dei dolci tipici che invece caratterizzano la festa di fine Ramadan – mese in cui si digiuna.

I piedi tinti con l’henne di Abiba, una delle donne somale

Lo zighinì, l’alicià e il numero di telefono. “In Etiopia il pane è diverso, si chiama injera ed è sottile ma morbido. Lo zighinì è un sugo di pomodoro di peperoncino, io lo mangio poco, così mamma prepara anche l’alicià una sorta di zighinì senza peperoncino. Con questi ci accompagni la carne” mi spiega con entusiasmo e linguaggio forbito Ima, bambina eritrea di otto anni nata in Italia, venuta in aiuto alla madre che non riusciva a spiegare in italiano cosa fosse lo zighinì. Quando le porgo i miei contatti l’atteggiamento compito di Ima diventa saltello festoso e raggiunge la madre urlando “ci ha dato anche il numero di telefono!” ciò mi fa sospettare che a Sania, la madre di Ima, il cui nome significa “la grande”, non capiti spesso che un’italiana lasci i suoi recapiti privati.

La piccola Zarina e la diatriba sul precetto del digiuno. “L’islam non è religione solo dei paesi arabi, pensa alla Malesia o anche a Hong Kong, la mia città. A differenza che nel resto della Cina, a Hong Kong la presenza dei musulmani è numerosa.” E’ sempre lì, in quel piccolo atrio, che incontro Zarina cinese musulmana da nove generazioni. Ha sessantasette anni, ha viaggiato tanto, visto tutti i continenti ed è rimasta in Italia per un amore conosciuto in vacanza. E’ seduta sul muretto, sola, è così piccola che si vorrebbe metterla in tasca per non farla camminare, per evitare che si affatichi. Zarina è forse la vera timida di tutte le donne presenti, porta un hijab bianco e delle rughe leggere. Beve il thè di Marian che nel frattempo ha intrapreso una diatriba con Fatma la tunisina e, come solo le donne del sud sanno fare, litigano senza dimenticare l’amicizia che le lega. Mediano, s’incaponiscono, si riappacificano e infine mi vengono a cercare perché hanno trovato il giusto precetto: il digiuno prima della festa è facoltativo e di nove giorni, non dieci. E’ infatti “odioso”, o meglio proibito, digiunare per la Festa del Sacrificio e nei giorni successivi.

“Se invece ti trovi durante il Pellegrinaggio, e fai pensieri impuri, puoi fare fino a sette giorni di digiuno e altri tre quando torni a casa” ci tiene a specificare Marian che il Pellegrinaggio lo ha già fatto. E ciò la innalza rispetto alle altre donne somale presenti, eccezion per Fatma che, a prescindere dalle sue origini tunisine, si documenta e studia tramite il web, mi consiglia dei siti islamici in italiano e mi racconta di come sarebbe felice di poter scrivere in un italiano fluido e corretto.

 M. Daniela Basile(27 ottobre 2012)