“Solo andata” di Fabio Caramaschi per la festa di Piuculture

Per chi volesse trascorrere una serata ampliando la propria conoscenza in tema di immigrazione ed integrazione, e desiderasse estendere i propri confini cinematografici, vedendo un  bel film che possa  coniugare tali propositi, l’appuntamento è  per giovedì 6 dicembre alle 19 a Via Aniene 26. La storica sede di Intersos sarà la sala cinematografica deputata ad accogliere gli amici di Piuculture alla proiezione del film “Solo andata- Il viaggio di un Tuareg” che narra la storia di due giovanissimi fratelli Tuareg nati nel deserto del Niger che si trovano separati dal loro destino di migranti: Alkassoum, il più giovane, è rimasto bloccato in Africa per anni per problemi di ricongiungimento, mentre il più grande, Sidi, cresce in Friuli. Alla fine della proiezione il pubblico incontrerà Fabio Caramaschi, autore e regista del film nonché noto fotografo. Nessuno meglio di lui può introdurci all’evento: incuriositi si, impreparati no.Quando nasce l’idea di questo film?“Probabilmente durante la mia permanenza in Africa, continente per il quale nutrivo una passione fin da ragazzo. Quando nel 2000 sono venuto a contatto con la realtà dei Tuareg, ho avuto il piacere di conoscere quelli che poi sarebbero divenuti i protagonisti di questa storia.  Il rapporto di amicizia e fiducia che si è instaurato è stato l’elemento fondamentale che ha permesso la realizzazione di questo complesso e lungo documentario durato quasi otto anni.Un tempo non indifferente, non trova?“Si, ma necessario. La mia intenzione era quella di dare un taglio diacronico all’opera. Desideravo guardare il fenomeno dell’immigrazione con gli occhi di chi la vive in prima persona, confrontando le diverse versioni intergenerazionali del nonno, del padre e del nipote, tutti  membri della medesima famiglia. Se lo sguardo del nonno è quello di chi vede vanificati tutti gli sforzi di una vita per garantire un futuro migliore ai propri cari, destinati per esigenze economiche ad emigrare, quello di Sidi (il nipote) rispecchia lo stato d’animo delle seconde generazioni, facilitate nel processo di integrazione ma, al tempo stesso, ostacolate in quello di identificazione. La sintesi più struggente è quella del padre, emblema dell’immigrato odierno, uomo malinconico e nostalgico che ha dovuto abbandonare le sue certezze (genitori, amici, casa, patria) per sperare in un futuro migliore per i propri figli.”Parafrasando Karl Levi Strauss, lei ha definito l’immigrazione “il tema essenziale del secolo”. Come sta “svolgendo” l’Italia questo tema?Non sono io che devo dare giudizi e non voglio neppure sparare a zero su questa tematica, come molti purtroppo fanno. E’ indubbio che in Italia questo tema venga visto come un problema: un grave dilemma culturale che ci ha impedito di sfruttare tutti i vantaggi derivanti dal multiculturalismo, come invece hanno fatto altri paesi Europei, in primis Inghilterra e Francia. Da questa carenza civile e culturale ne è derivata un’arretratezza istituzionale e burocratica che nel film è abbastanza tangibile, a partire da quella legge sul ricongiungimento che ostacola l’arrivo in Italia di Alkassoum, il fratellino di Sidi. L’esplosivo mix di indifferenza e diffidenza che accompagna l’arrivo in Italia degli immigrati, consegna all’immaginario collettivo storie schematiche, racchiuse in stereotipi precostituiti e prive di individualità soggettive. Forse servirebbe una maggiore libertà di pensiero.La stessa libertà di cui si parla nella suo documentario?In un certo senso si. Il deserto rappresenta, da un punto di vista spaziale, la libertà dei Tuareg e del loro stile di vita, scevro da condizionamenti e limitazioni temporali. Elementi di forte contrasto se paragonati alla realtà occidentale dove gli uomini sembrano schiavi del tempo e vincolati da obblighi e divieti permanenti. Mentre Alkassoum trascorre le sue giornate in Niger in compagnia di amici ed animali correndo in spazi sterminati, Sidi si trova catapultato in un mondo diverso, stretto ed angusto come è quello di provincia, un mondo che lo comprime tra impegni scolastici e familiari.Lei affida spesso la telecamera a Sidi, il protagonista. Perché?Sono tre i motivi fondamentali. In primo luogo cerco di dare allo spettatore un punto di vista interno, anche attraverso i movimenti della telecamera che seguono la gestualità di chi riprende. In secondo luogo tento di perseguire un maggiore impatto della realtà e quindi di rendere  più verosimili possibili i sentimenti, le espressioni e le esternazioni degli attori. Infine questa decisione risponde ad un preciso “valore politico”: come gli attori mi regalano la loro storia e la loro personalità, così io concedo loro la telecamera e favorisco una condivisione tecnologica.Qual è il messaggio principale di questo film?E’ difficile racchiudere in un’unica affermazione lo scopo del film, anche per chi ne è regista e autore. Diciamo che ho voluto raccontare una storia dalla quale potessero sorgere più domande che risposte, affidando quest’ultime alla libera riflessione personale degli spettatori. Ho cercato soprattutto di trattare un tema delicato, quale quello dell’immigrazione, dal lato dei bambini, soggetti indifesi che spesso subiscono passivamente decisioni altrui, senza poter decidere il loro destino.  Oltre alla telecamera, ho tentato anche di dare loro voce.Allora a giovedi, quando la voce andrà agli spettatori ?Si (accenna un sorriso)… come sempre del resto !Alessandro Ferretti(3 Dicembre 2012)