Goal senza frontiere: realizzarsi giocando a pallone

Etiopia, prima in classifica. Domenica 10 febbraio, al Centro Alessandrino, nell’omonimo quartiere romano, diverse squadre straniere hanno giocato per conquistare una posizione migliore nel torneo di calcio a otto “Goal senza frontiere”. Si è concluso con 5:2 l’incontro tra Albania-Sudan, 2:1 tra Marocco e Provida Italia, 0:6 tra l’Algeria-Etiopia, 2:2 tra Bangladesh-Erasmus Roma3. I giocatori provengono da diversi paesi, la maggior parte sono rifugiati, alla ricerca di un lavoro e di una vita migliori, accomunati da una grande passione per il calcio.

Ahmad Shah Nabizadeh è arrivato come clandestino in Italia 5 anni fa. Dall’Afghanistan ha impiegato circa 4 mesi: in auto, in barca, a piedi, attraversando le montagne, con ragazzi come lui passando per il Pakistan, l’Iran, la Turchia, la Grecia. “Nel nostro paese ci sono molti problemi con i talebani, perciò ho chiesto l’asilo politico e ora sono rifugiato politico. In Afghanistan tutti i ragazzi sanno come scappare da lì. Abbiamo messo i soldi da parte per non morire di fame nel viaggio”. Coraggiosi e fiduciosi, senza documenti, in ogni paese hanno chiesto alla gente che incontravano quale fosse la via migliore per proseguire verso la loro meta. “Diverse volte abbiamo avuto paura di morire. Passando dalla Turchia in Grecia un compagno è caduto dentro l’acqua e non è riuscito a salvarsi. Nessuno di noi sapeva nuotare”. Adesso Ahmad gioca con la Sporting United, ma partecipa a questo torneo con la squadra del Sudan come difensore destra e attaccante. Sogna di far parte anche dalla squadra afgana. “Il mio desiderio è avere una vita tranquilla. Ora sono un sarto in cerca di lavoro e voglio giocare a calcio. Mi alleno con una squadra e mando tanti curricula.

“Il colore è ancora una barriera tra stranieri ed italiani”, dice un giovane dai tratti indiani. Sul suo documento si legge il cognome Nirindraharikiady, e sotto c’è scritto: Senza nome. Proviene dal Madagascar e non si sa il motivo, ma i genitori non gli hanno dato un nome. “La diffidenza tra gli italiani e gli stranieri c’è sempre. Avere una cultura molto diversa rispetto a quella italiana, oltre alla lingua e la religione, rallenta l’integrazione. Una volta mi hanno addirittura sputato addosso solo perché ero straniero”. Dal Madagascar il giovane Senza nome è andato in Francia per studiare musicologia e pianoforte  al conservatorio. Però non si è diplomato e siccome parlava bene l’italiano, gli hanno proposto un impiego come segretario all’ambasciata del suo paese in Italia. Ha lavorato lì fino al 2009 quando nella sua terra d’origine c’è stato un colpo di stato. Così, cambiata l’onda politica, lo hanno mandato via. “Ho chiesto l’asilo politico e ho ricevuto la protezione umanitaria. Alla fine non ho avuto problemi d’integrazione. Ho tanti amici, anche italiani”. Abita al centro ENEA e gioca per la squadra del Sudan: Nirindraharikiady è un centro campista e vanta un goal contro l’Albania.

Per scampare alla guerra, Bah El Hadj è arrivato in barca dalla Libia insieme a 250 persone, sbarcando a Lampedusa. Proviene dalla Costa d’Avorio, ha origini senegalesi e in Libia ristrutturava case. “I ribelli  entravano dentro le abitazioni degli stranieri, rubavano i soldi e trattavano male la gente. I militari hanno preso tutti gli africani e ci hanno trascinati al porto per prendere la barca. Abbiamo viaggiato 2 giorni in alto mare senza sapere la destinazione”. Per avere il permesso di soggiorno hanno poi chiesto l’asilo politico. Bah è in Italia da 1 anno e 7 mesi e parla bene l’italiano. Faceva sport da piccolo e segna 2-3 goal in ogni partita. Da quando è arrivato come attaccante nella squadra dell’Algeria su 5 partite ne perdono 2. Si allena da solo e ogni giorno va a correre: “Vorrei diventare calciatore professionista, per poter avere un buon futuro”. Adesso vive in un centro d’accoglienza, frequenta la scuola media e sta cercando lavoro. “Mi manca mia madre, da 3 anni non la vedo, ci sentiamo solo al telefono. Non c’è lavoro e non le posso mandare niente. Mio padre non c’è più, devo pensare io a lei”.

“Siamo stati costretti a lasciare il paese per vari motivi, anche per la guerra civile”, racconta Paolo Cabini, padre italiano in missione militare e madre etiope. “È stato duro per i primi anni ad integrarsi, fortunatamente con le basi formate in Etiopia, dove sono nato e cresciuto, siamo riusciti a superare tanti ostacoli. Crescere in un paese povero e trasferirsi poi in un paese dove hai più possibilità di crescere, ci ha aiutati ad inserirci nella società”. La passione per lo sport l’ha sempre avuta. Negli anni perdeva la conoscenza della sua madrelingua, però grazie ai compagni di squadra, ricomincia a parlarla. “Sono un difensore e centrocampista, anche uno esterno, mi adatto dove ci sono delle difficoltà. Nei miei sogni credevo di cambiare la vita con il calcio. Adesso mi accontento del calcio amatoriale e sono felice”. Paolo è un profugo di guerra, studia architettura alla Sapienza e lavora part-time, perché con lo stipendio della mamma non riescono a tirare avanti. Solo la sera trova il tempo per allenarsi. “Consigli per i ragazzi stranieri: sperare e cercare di crescere. Non arrendersi mai, anche quando vedono che non riescono ad integrarsi o pensano che l’Italia sia un paese più complicato rispetto al loro”.

“Le  8 squadre partecipanti a questo torneo danno molta soddisfazione”, dice Remo Stefanelli, responsabile per la Feder Italia della Regione Lazio, organizzatore del torneo insieme a Danilo Zennaro. Quello che si vede la domenica qui non si vede in nessuno dei campi di calcio a qualsiasi livello: se c’è un fallo si stringono le mani tra avversari, se c’è un problema si risolve con due parole”.  Tra i ragazzi trovi quelli che hanno un buon lavoro, oppure che lavorano ai mercati generali e altri che non hanno un impiego. Molti i sacrifici sostenuti: “Il tempo che passano qui lo rubano alle famiglie o al lavoro.  Rinunciano a tante cose per allenarsi. Siamo riusciti a dare loro una dignità”.

Raisa Ambros

(14 febbraio 2013)