Guerra civile in Siria, far sentire la voce alla comunità internazionale

Un’immagine della manifestazione a Bologna dello scorso novembre

Onsur ed “Insieme per la Siria libera” sono due associazioni che coinvolgono cittadini originari del paese mediorientale in Italia, rispettivamente ad Ancona e Milano, da pochi mesi attive anche a Roma per motivi logistici di collegamento per la raccolta di indumenti e viveri da destinare alla popolazione martoriata da due anni di guerra civile, costata fino ad ora più di 60 mila vittime. “La risposta della capitale è stata positiva”, rivela Sara El Debuch, nipote di Ahmed, referente del progetto, “otteniamo sempre di più e l’obiettivo è allargarci ancora per far conoscere la realtà di ciò che accade”. Messaggio che, almeno in parte, è stato recepito, “il vostro sostegno a volte è anche maggiore di quello dei miei connazionali, sia perché la maggioranza di chi sta qui è pro-regime e non ci vede di buon occhio, sia perché altri hanno paura ad esporsi, a differenza ad esempio di un’italiana che conosco, madre di tre figli, che periodicamente si reca in Siria. Poi c’è anche chi nemmeno sa dove si trova il mio paese”.

Con una spesa di 25 euro è possibile sfamare una famiglia per due settimane, con pacchi alimentari che comprendono beni di prima necessità come farina, pasta, zucchero, latte, biscotti, legumi e riso. L’obiettivo è farne giungere trecento e sulla pagina facebook si possono trovare gli estremi per la donazione, che arriverà “direttamente a Damasco e nelle grandi città”, insieme a capi d’abbigliamento, coperte, scarpe e medicinali indispensabili soprattutto nel periodo invernale. Ma non è facile organizzare sempre iniziative, anche per gli ostacoli posti dall’ambasciata, nonostante “il rapporto prima fosse ottimo”. Il 17 novembre c’è stata una manifestazione a Bologna, per il 15 marzo, anniversario dell’inizio del conflitto, si sta cercando di fare altrettanto nelle principali città, da Milano a Roma, con un coordinamento nazionale.

Il logo di Onsor

Viaggio in Siria “Andavo sempre in Siria un mese per le vacanze”, racconta Sara, l’ultima volta proprio agli albori della ribellione. “Già all’aeroporto c’era un’aria strana, era vuoto, l’unico aereo era quello con cui ero venuta dall’Italia”. E per le strade non poteva certo migliorare, “ad ogni semaforo i soldati dai carri armati chiedono i documenti per identificarti”, ma la sicurezza minima, “ho perso uno zio, rapinato e ucciso perché aveva la macchina nuova, le violenze sono delle stesse forze armate, così come di delinquenti comuni che si spacciano per uomini dell’esercito”. Per via del coprifuoco è impossibile girare dopo il tramonto e “nel centro storico i poliziotti si travestono da uomini delle pulizie o da venditori alle bancarelle, per cercare di sorprendere gli oppositori. Li immobilizzano con scosse elettriche, trascinandoli in galera per torturarli anche psicologicamente. Ho visto una signora in un bar alzarsi in pubblico per urlare la sua rabbia contro Assad, apparso sullo schermo acceso, è stata subito denunciata dagli ‘shabbiha’ – delatori su ricompensa in denaro – e dopo due giorni abbiamo saputo che era morta, anche se i parenti delle vittime evitano di svelare la vera causa del decesso, parlano più genericamente di problemi di salute, la paura delle ritorsioni è alta”.

Le notizie dai parenti Il ramo materno della famiglia viveva nel centro di Damasco, nel quartiere Midan, spesso sotto i bombardamenti dal monte Qossium. “Anche lì per le vie c’era un controllo ogni 20-30 metri, dovevi specificare di essere residente ogni volta che entravi o uscivi dalla zona”. Da lì lo spostamento verso il sobborgo di Babila, a sud della capitale e a maggioranza sciita, “ma è stato anche peggio, erano direttamente gli elicotteri a sganciare gli ordigni. Il governo aveva minacciato di uccidere tutti i sunniti – come i parenti di Sara – di Babila, e loro si sono dovuti nascondere per qualche giorno nello scantinato, senza acqua, luce, cibo, sentendo i passi degli scarponi dei miliziani dal piano superiore”. Ora sono al sicuro in Libano. I familiari paterni si trovano invece ancora in Siria, “cercano di condurre una vita normale, scuola, lavoro, università, proprio perché sanno di poter morire in ogni momento, è l’unico modo per andare avanti”.

Tenersi sempre aggiornati Internet è l’unico mezzo con cui trovare notizie sempre fresche, “nei gruppi facebook e su youtube i video vengono caricati in tempo reale”, quasi sempre riuscendo ad aggirare la censura. “L’unico episodio poco chiaro è stato un black out di qualche giorno, avvenuto circa tre mesi fa. Il regime ha parlato di problemi di connessione ma si è risolto”. Anche Al Jazeera e Al Arabiya, come capitato per altre rivolte nel Nord Africa, danno ampio spazio alla questione, “sono i migliori tg, ma preferisco sempre leggere ciò che raccontano i miei connazionali. La cosa peggiore è l’impotenza, la sensazione di non poter fare niente”.

Un conflitto religioso? La maggioranza della popolazione è sunnita, circa il 74%, per il resto c’è un composito mosaico di minoranze con i cristiani al 10% e un 13% di altre correnti musulmane come drusi e alawiti, ramo sciita, cui appartiene però il presidente Bashar al-Assad. “Per questo motivo gli alawiti detengono le più alte cariche amministrative. E le violenze contro i sunniti sono atroci, ci sono state proteste mondiali per il film che raffigurava Maometto, mentre ora che bruciano il Corano e profanano le moschee, cose ben più gravi, nessuno fa niente”.

Il mondo è rimasto a guardare, anzi nemmeno quello Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno ripetutamente posto il veto alle risoluzioni dell’Onu, ufficialmente per non aggravare una situazione che, in caso di caduta di Assad, non avrebbe un leader per guidare il paese fuori dalla crisi. Ben noto anche l’appoggio al regime dell’Iran di Ahmadinejad, ma l’occidente che si dimostra solidale con la causa “lo fa solo a parole”. Nello stesso mondo arabo, sauditi e qatarioti, che hanno a disposizione i più ingenti mezzi, sono rimasti a metà del guado, secondo molti combattuti tra il desiderio di supportare la popolazione sunnita oppressa e i timori di un processo riformatore che potrebbe espandersi anche nei loro confini. “Il Libano, che nel 2006 abbiamo soccorso, ripaga girandosi dall’altra parte, la Giordania tiene per sé gli aiuti in transito. Noi non vogliamo un intervento armato da parte di eserciti”, chiude con orgoglio Sara, “solo che ci sia una vera diffusione di notizie, che si venga a conoscenza dei fatti”.

Gabriele Santoro(14 febbraio 2013)