Negli anni ’60 gli immigrati nel settore della collaborazione domestica erano appena 10 mila, in prevalenza donne eritree. Il primo grande incremento è stato dagli anni ’70 con l’arrivo di filippine, capoverdiane e latinoamericane. Adesso il fenomeno ha assunto proporzioni rilevanti, in tutta Italia l’Inps ha censito 750 mila impiegati stranieri nell’assistenza familiare, ma è ragionevole pensare che la cifra reale sia da raddoppiare, per la presenza tutt’altro che marginale di persone che svolgono il lavoro senza regolare contratto. Per conoscere meglio chi sono questi migranti, cosa fanno, come vengono trattati e tanti altri aspetti è stato realizzata un’indagine dal Centro Studi e Ricerche Idos, coordinata da UniCredit Foundation, presentata il 2 maggio presso la Sala Minerva di Palazzo de Carolis. “Non un lavoro universale, ma interviste ad un campione rappresentativo di 606 impiegati nel centro e nord Italia, in grado comunque di fornire dati significativi”, puntualizza il curatore del progetto Maurizio Carrara.
“Il supporto fornito dagli assistenti trasforma gli equilibri delle famiglie, la prima istituzione a beneficiare dell’immigrazione”, commenta Tetyana Kuzik, consigliere comunale aggiunto per l’Europa dell’est di Roma Capitale. “Si crea benessere nelle situazioni di cui ci si è presi cura. Se avete affidato bambini, disabili o anziani vuol dire che c’è fiducia e vicinanza. Stranieri non deve significare estranei”.
Dal punto di vista dei diritti sono stati fatti passi avanti, l’Italia è stato il primo tra i paesi cosiddetti a sviluppo avanzato a ratificare la Convenzione internazionale promossa dall’Ilo – Organizzazione Internazionale del Lavoro – per favorire la protezione sociale contro abusi e violenze di ogni tipo. “Ci sono trascorsi che raccontavano una nuova schiavitù passata per il lavoro domestico”, ricorda Raffaella Maioni, segretaria nazionale delle Acli Colf. Ma l’ambito è delicato, anche i datori di lavoro sono soggetti deboli, spesso anziani da soli, “non certo direttori d’azienda, serve l’impegno di tutti i servizi per una maggiore inclusione possibile”.
La categoria lavorativa è quella più diffusa tra gli stranieri, in grado di assorbire il 21% dei presenti in Italia. Netta la prevalenza di donne, vicina al 90%, con un’età media di 40 anni, anche se probabilmente si tratta di una distorsione dovuta alla ristrettezza del campione: realisticamente si dovrebbe attestare intorno ai 33. Le provenienze principali sono dall’est Europa, con Romania, Ucraina e Moldavia nei primi tre posti. A seguire, Filippine, Ecuador, Sri Lanka e Perù. La tipologia di assistiti vede al 53% anziani, al 36,5% famiglie – anche se spesso con anziani a carico – ma non manca il lavoro in cucina, per un terzo degli intervistati. Il livello di istruzione è buono, un quarto ha conseguito il diploma, il 18% ha anche frequentato l’università.
Il numero di coniugati sfiora il 50%, mentre il 73,4% ha figli, quasi sempre nel paese di origine contro un 22% in Italia. Ma solo la metà ha intenzione di effettuare il ricongiungimento, dato che se non nell’immediato, tre su quattro pensano ad un ritorno in patria. Il fattore risparmio è fondamentale, circa l’80% riesce a mettere da parte fra i 100 e i 250 euro al mese, ad esempio rinunciando a parte della retribuzione ma vivendo presso la famiglia dove lavora (53,6%). Il 72,2% utilizza questi soldi per inviarli come rimesse.
Le tipologie di inquadramento contrattuale più diffuse sono la B e B super (44,6%), cioè di collaborazione generica, il 29% è invece al livello C e C super, relativa a specifiche competenze verso persone non autosufficienti. Anche se solo un quarto ha ricevuto una formazione e il 60% non ne avverte nemmeno la necessità. Il 55,6% lavora tra le 21 e le 40 ore settimanali, il 26,2% tra le 41 e le 60 e un 4% dichiara di superare la soglia delle 60 ore. La metà riceve busta paga e Cud come attestazione di reddito percepito, necessari per la documentazione concernente il permesso di soggiorno: il 30% ha quello di lungo periodo, il 40% biennale. Il rispetto della giornata e mezza di riposo prevista dal contratto collettivo avviene nel 50% dei casi, ma c’è un fin troppo elevato 8,4% cui viene concessa solo mezza giornata.
Il tempo libero viene impiegato dai due terzi con amici connazionali o con i parenti presenti nel nostro paese. Il 27,7% lo trascorre anche con amici italiani, una quota in crescita rispetto al passato anche se non ancora elevatissima. Il 12% addirittura rimane presso la famiglia dove lavora. L’88% ad ogni modo non è iscritto ad associazioni di alcun tipo.
Interessante infine il rapporto con i datori di lavoro, il 64,5% ritiene di essere trattato bene, il 27,1% addirittura benissimo, solo l’1,6% ha risposto tra male e malissimo. E anche il giudizio della famiglia verso il dipendente è positivo o molto positivo per quasi il 90%: le qualità maggiormente apprezzate sono la gentilezza e la disponibilità oraria, solo un 20% scarso ammette di gradire pure il basso costo delle prestazioni.
Gabriele Santoro
(3 maggio 2013)