“Ricordare è un esercizio doloroso per le vittime di violenze, sessuali e non, è un gesto di generosità al servizio della riconciliazione”, con queste parole Laura Boldrini, presidente della Camera e forte di anni di esperienza con i rifugiati per l’agenzia delle Nazioni Unite Unhcr, introduce l’incontro “La verità necessaria. I processi di riconciliazione nei paesi delle Primavere Arabe” svoltosi alla Camera dei Deputati la mattina del 2 luglio. “Lo scopo è andare oltre la mera denuncia. Il riconoscimento pubblico e ufficiale delle vittime le rende figure eroiche”. Tre le testimonianze che si sono succedute nel corso dell’incontro, dirette o mediate, delle atroci barbarie perpetrate dal regime di Gheddafi in Libia nel pieno della guerra civile, anche se situazioni del genere hanno radici più profonde degli eventi contingenti degli ultimi due anni.
“Tutto è stato violentato per quattro decenni”, conferma Juma Ahmad Atigha, vicepresidente del Congresso generale nazionale della Libia, “la volontà popolare, i sogni, oltre alle donne. Era diventata una delle armi contro la gente che alla fine ha detto no al regime”. La priorità assoluta è ora l’approvazione di un progetto di legge presentato affinché chi ha subito violenze sessuali nel corso della rivolta venga parificato alle vittime di guerra. “L’approccio giudiziale serve per gestire gli aspetti delle compensazioni materiali”, con la consapevolezza che le ferite “potranno cicatrizzarsi ma mai essere cancellate”.
Non è facile riuscire a parlare di determinate circostanze, Soraya ne è stata capace e la sua storia è stata pubblicata dalla giornalista di Le Monde Annick Cojean nel libro “Le prede. Nell’harem di Gheddafi”. “Capii che avevo il dovere di farlo, il silenzio era il migliore alleato di Gheddafi”, racconta la stessa Cojean. Rapita e portata nel deserto, dopo le analisi del sangue Soraya è stata spinta nella stanza del “padrone”, picchiata, forzata ad assumere cocaina, costretta a danzare nuda per il divertimento del Colonnello, “un inferno, il contrario dei valori imparati e vissuti a casa”.
Era entrata a far parte delle amazzoni, lo stuolo di ragazze che seguivano e proteggevano il dittatore, “accolte dai nostri uomini politici che non si chiedevano chi fossero, che libertà avessero, oppure sapevano già e c’era colpevole indulgenza. Fa parte dei delitti accettabili circondarsi di belle donne”. La realtà supera l’immaginazione, gli aguzzini erano spesso mercenari a loro volta minacciati di morte se non avessero compiuto le peggiori efferatezze, “non si esce indenni da tali indagini, succede in tutte le guerre”.
“Al culmine della rivoluzione ci era stato chiesto di partecipare ad un video contro il regime, messo in onda da Al Jazeera”, racconta un’altra ragazza, presente in aula ma protetta dall’anonimato. “Dopo un paio di giorni io e altre due amiche siamo state denunciate e arrestate davanti all’università”, con gli altri studenti ovviamente impossibilitati a tentare qualsiasi tipo di intervento.
“Siamo state trasferite in un luogo segreto dopo tre ore di viaggio, bendate. Le altre due, non sposate, sono state portate via e non le ho più viste, io sono rimasta due mesi in prigione, sempre nuda, mi trascinavo a forza perché dopo le scosse elettriche non riuscivo a camminare”. Era incinta, le torture le hanno fatto perdere il bambino e diventare sterile, senza parlare dei continui abusi sessuali. La cosa peggiore è forse il fatto che la società non l’abbia perdonata, “mi hanno detto che se non avessi preso parte al video sarei rimasta al sicuro. L’unico risarcimento è che venga fatta giustizia, che queste persone siano catturate e mostrate al mondo”.
Un altro uomo ricorda invece il terribile periodo alla ricerca del figlio, aggredito in casa e scomparso in chissà quale prigione per diverso tempo. “Quando finalmente ho scoperto dov’era, in un carcere camuffato da azienda, sono andato sul luogo, ho parlato con le guardie. Ho visto la stanza delle torture, 6 metri per 6, con corde pendenti dal soffitto e una sedia elettrica. In altre c’erano bambini di 10/11 anni, arrestati per chiedere il riscatto alle famiglie”. Il bagno era una camera inondata di acqua mista agli stessi bisogni dei prigionieri. “Mio figlio ora è a casa, ha due dita tagliate e una gamba rotta, sta malissimo. Solo se la legge verrà approvata riavrà i suoi diritti”.
Gabriele Santoro
(3 luglio 2013)