Ha preso il via il 28 agosto la 70° edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia , oltre 100 film provenienti da 33 paesi del mondo, visibili al Lido di Venezia fino al 7 settembre, un serbatoio di pellicole, emozioni, informazioni, idee che attraverso una scelta condensata di titoli verranno riproposte a Roma e Milano alla fine della manifestazione. In contemporanea con le proiezioni ufficiali al Lido, comodamente seduti nella poltrona di casa, c’è la possibilità di vedere in streaming, in tutto il mondo, dodici lungometraggi della sezione Orizzonti e tre della Biennale College al costo di 4 euro; per la sala virtuale, già in funzione lo scorso anno, sono in vendita 500 “biglietti” per ogni proiezione. Il percorso di Piuculture attraverso le varie sezioni della Mostra è all’insegna della diversità e dell’integrazione.
La scuola ha un posto d’onore tra i temi scelti a partire da La mia classe dell’italiano Daniele Gaglianone, che dopo il discutibile Ruggine, racconta una classe di italiano L2 che ha per maestro Valerio Mastandrea. Gli allievi sono stranieri, autentici studenti selezionati da altrettanti corsi d’italiano per adulti, il film era ispirato dalle loro vite “ad un certo punto la realtà con cui siamo entrati in relazione ci è esplosa fra le mani. E a quel punto ho pensato seriamente di rinunciare a fare il film…. Realtà e finzione si incontrano, si confondono: distinguere i confini diventa impossibile”. Regista, attore, troupe abbandonano l’idea di film che stavano girando per farne uno nel quale “lo spettatore smettesse di chiedersi che cosa stava vedendo, un documentario, un film di finzione, un backstage…” La scuola, anzi il rapporto fra il nuovo professore e i suoi allievi, e il loro diverso modo di intendere la vita è alla base di Class Enemy film di esordio dello sloveno Rok Bicek, scelto per la sezione Settimana della critica, analoga diversità di intenti si trova nel film che chiude, fuori concorso, la sezione: Les analafabetas del cileno Moisés Sepùlveda. Qui la cinquantenne Ximena, che ha mantenuto per tutta la vita un segreto: è analfabeta, incontra Jackeline giovane insegnante disoccupata che vuole liberarla dall’analfabetismo, ma la cosa è meno lineare di quanto si potrebbe immaginare. E infine in Kush, il corto (20’) della giovane regista indiana Shubhashish Bhutiani, una maestra fa di tutto, durante una gita scolastica, per proteggere il suo unico alunno sikh, il piccolo Kush appunto, siamo nei giorni caldi dopo l’assassinio del primo ministro Indira Gandhi. Il film è tratto da una storia vera che ha colpito la regista “in maniera indelebile perché andava al di là dell’età, della religione, della classe sociale. Mentre la tensione politica soffocava il mio paese e l’odio si insinuava nel popolo, credo che il vero spirito dell’India si sia espresso sui sedili di quel pullman” a conferma che è innanzi tutto dalla scuola che passa l’integrazione dei “diversi”, altro tema trasversale alle varie sezioni.
Arabi e Israeliani. In Ana Arabia, in concorso, il regista
israeliano Amos Gitai lega in un unico piano sequenza di 81’, senza nessuno stacco, l’incontro della giovane giornalista Yael con una piccolo comunità di reietti, ebrei e arabi. In questa microcosmo, lontani da tutti, Youssef, Miriam, Sarah, Walid e i loro amici convivono, è “ una specie di affermazione politica con cui si commenta che i destini di ebrei e arabi di questa terra non saranno spezzati, non saranno separati. Sono intrecciati e dovranno trovare un modo pacifico di coesistere”.
Più tempestoso ma non meno coinvolgente il rapporto tra Sanfur, fratello di Ibrahim combattente palestinese ricercato, e Razi, agente del servizio segreto israeliano, che ha reclutato Sanfur come informatore nel film Bethlehem dell’esordiente Yuval Adler. Sono i tempi della seconda Intifada quando le strade di Tel Aviv e Gerusalemme erano sconvolte da attentati suidici. “Bethlehem si muove tra la società palestinese e quella israeliana. “Ho tentato di non evitare, e anzi di accentuare i contrasti. I personaggi del film sono compromessi, estremi. Ho cercato di rappresentare i loro diversi e contraddittori punti di vista, senza prendere posizione e senza giudicarli”.In May in the Summer di Cherien Dabis, protagonista Hiam Abbass, l’intensa attrice
palestinese de L’ospite inatteso e Il giardino dei limoni. May Brennan è una donna di successo che sta per sposare Ziad, un eminente accademico di New York. Ma quando torna ad Amman, sua città natale, la sua vita apparentemente perfetta inizia a mostrare delle crepe e diviene inevitabile lo scontro di valori fra il mondo passato e quello moderno. Cherien Dabis con Amreeka, lungometraggio d’esordio, era stata inserita da Variety tra i “dieci registi da tenere d’occhio”.
Nord – Nord Est. E’ una strana integrazione quella che si realizza in Zoran il mio nipote scemo di Paolo Oleotto, tra Paolo, Giuseppe Battiston, e Zoran, il giovane sloveno Rok Prašnikar, lontano nipote “caduto dal cielo”, sullo sfondo di un osmiza, le frasche friulane, osterie a conduzione famigliare che punteggiano il territorio di confine con la Slovenia. Lontani dall’integrarsi i protagonisti di Piccola patria di Alessandro Rossetto che racconta la vita ai margini di due ragazze Renata e Luisa e di Bilal, il suo fidanzato albanese, giovani disinibiti spinti dal desiderio di lasciare la vita, stretta, di provincia “Ho visto accadere nel Nordest italiano le storie che compongono il racconto di Piccola patria”. Andrea Segre continua con La prima neve a raccontare storie di migranti, lasciata la laguna di Io sono Li si sposta tra le montagne del Trentino dove Dani nato in Togo, arrivato in Italia in fuga dalla guerra in Libia è ospite di una casa di accoglienza a Pergine. Dani lavora nel laboratorio di Pietro – ancora Giuseppe Battiston – che vive in un maso di montagna insieme alla nuora Elisa e al nipote Michele, un ragazzino di 10 anni che ha perso da poco il padre. “È il bosco il luogo centrale dell’incontro tra Dani e Michele. Nel bosco i due si cercano, si respingono, si conoscono. Uno spazio in cui la natura diventa teatro”.Venezia Salva di Serena Nono, tratto dalla tragedia di Simone Weil, è il terzo film realizzato dalla regista con la collaborazione de la Casa dell’ ospitalità di Venezia e Mestre, che accoglie persone, italiane e straniere, senza dimora. Nella pièce di Simone Weil “Il tormento è interiore e non nell’azione. La non azione agente ne costituisce il grande tema. La sfida è di rappresentarla con non attori, con persone che parlano lingue diverse, che vivono il margine, lo sradicamento in modo da ottenere una spiazzante dissonanza di accenti”.
Le donne. In Via Castellana Bandiera di Emma Dante lo spunto è la contesa surreale tra due macchine che si fronteggiano nella strada strettissima: al volante da un lato una vecchia albanese, dall’altro una palermitana trapiantata a Milano, emblemi di due anime diverse di città, decise a non indietreggiare. Samira ha un’ostinazione frutto della sua vita di donna sradicata, Rosa aderisce forse a un principio di legalità. “Le donne si fissano come galline, con il collo teso e la testa leggermente spostata in avanti. Pronte a scattare, tendono le orecchie. Entrambi gli equipaggi guardano il proprio conducente con profonda stima e senso dell´onore. Anche se resterà segreto per loro il motivo della sfida: Rosa e Samira dichiarano guerra alla propria sottomissione”.
Gli uomini. Eastern Boys di Robin Campillo, regista francese nato in Marocco, è il suo secondo film dopo il discusso Les revenants, ma Campillo è anche co-sceneggiatore de La classe, bella pellicola girata di Laurent Cantet. Eastern Boys racconta l’incontro di Daniel, uomo discreto sulla sessantina, con un gruppo di ragazzi provenienti dall’Europa dell’Est, ucraini, russi, moldavi, che si aggirano nella zona della Gare du nord a Parigi e sembra si prostituiscano. “Lungi dal voler giudicare la situazione degli immigrati clandestini, o dal voler essere una riflessione sulla paternità. Il film ritrae delle persone che vivono in clandestinità e che rappresentano l’una per l’altra sia un pericolo che una promessa.”
I bambini. In Tanzania dal 2008 gli albini sono dei perseguitati. Stregoni offrono grandi somme di denaro per comprare parti del corpo degli albini per creare pozioni magiche. Dal 2008 al 2010 si sono consumati oltre 200 omicidi. White Shadow di Noaz Deshe racconta la storia di Alias, un ragazzino albino in fuga, mandato dalla madre in città, per trovare rifugio e protezione. Ma Alias non tarderà a provare sulla sua pelle le difficoltà della vita e dell’essere diverso in una città che diviene minacciosa quanto la savana dalla quale è fuggito.
Un incentivo al cinema africano. Quest’anno la Mostra del Cinema di Venezia, con il Festival International du Film d’Amiens e il Festival International de Films de Fribourg, invitano a partecipare al workshop Final Cut in Venice dedicato ai film africani per il quale sono state le copie lavoro di 4 film africani in post-produzione che saranno presentate a una platea di produttori, buyer, distributori e programmatori di festival cinematografici internazionali. L’intento è favorire partnership di coproduzione e accesso al mercato distributivo. Il workshop si concluderà con l’attribuzione di premio per sostenere economicamente i film nella fase di post produzione.I film selezionati sono Made in Madagascar – avec presque rien di Nantenaina Lova “dietro alla mia videocamera guardo
senza condiscendenza i miei connazionali che, senza risorse e con la sola forza d’animo, creano vita, oggetti, musica e grandi discorsi. Al di là di ciò che gli economisti chiamano “sottosviluppo”, vedo ovunque una resistenza incosciente a un sistema globalizzato, ben poco umanista”. Dalla Tunisia arriva Challatt Tunes della tunisina Kaouther Ben Hania “il film è come una grande caccia al tesoro dove, dietro ogni tappa, c’è una storia che ci dice qualcosa di più sulla realtà.Il tono è umoristico. Il soggetto era troppo drammatico per sostenere un trattamento lacrimevole. In Tunisia ciò che dà vita alla gente è il senso dell’umorismo di fronte alle cose serie, per conservare la speranza in un futuro migliore. Dal vicino Egitto arriva El Ott di Ibrahim El Batout, storia di un padre, un piccolo malvivente, alla spasmodica ricerca della sua bambina rapita nel timore che possa essere stata coinvolta in un traffico di organi. Lo spunto al film viene da un episodio vissuto durante la guerra di Bosnia, l’intento” ventidue anni dopo è di farmi guidare dalla situazione fotografata in Bosnia per girare un film in Egitto, dove la società sta facendo una guerra contro l’indifferenza e la negligenza nei confronti di 3,5 milioni di bambini senza tetto”. Territorial Pissings di Sibs Shongwe-La Mer è un film sperimentale e contemporaneo che racconta la quotidianità dei ragazzi della periferia benestante di Johannesburg post apartheid durante la festa nazionale del 16 giugno. Ho fatto questo film in ricordo di Aimee De La Harpe, la giovane sedicenne che nel 2006 filmò il suo suicidio” Quattro film che raccontano l’Africa, abitualmente considerata come un tutt’uno, in realtà continente sfaccettato dalle molteplici realtà culturali, economiche, sociali…peccato che difficilmente pubblico e stampa avranno accesso a queste proiezioni per addetti ai lavori, ma almeno per il film premiato ci sarà possibilità di vederlo sugli schermi in futuro.
Nicoletta del Pesco
(6 settembre2013)
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