Il 7 dicembre l’auditorium dell’American University of Rome ospitava studenti decisamente sui generis. Niente a che vedere con il percorso accademico: i professori, per un giorno, sono stati i relatori scelti da Tam tam d’Afrique. Un passo verso l’altro il titolo della giornata, fatta di incontri pratici mirati allo scambio di opinioni e di esperienze sul comunicare l’intercultura. Partecipanti provenienti da tutta Italia e da diversi settori professionali hanno messo a disposizione la propria expertise per dimostrare che fare intercultura non solo è possibile ma è necessario. Se la mattina è stato il turno dei laboratori, il pomeriggio è dedicato interamente alla discussione che più interessa i professionisti della comunicazione, specie se interculturale: Come fare giornalismo quando si parla di diversità?
“La televisione dà una rappresentazione sociale distorta dei neri, dipingendoli come dei miserabili”, afferma in apertura Fortuna Mambulu, giornalista alla radio e sulla carta stampata, nonché moderatore del dibattito del pomeriggio. Il problema principale di gran parte dei media italiani, secondo Mambulu, è il mancato rispetto di due delle principali leggi che l’Ordine dei Giornalisti si è dato di comune accordo con l’UNHCR, di fatto autoregolamentando la propria professione in materia: la Carta di Roma e la Carta di Treviso. Corre rapido il pensiero a Mission, lo show che la scorsa settimana è andato in onda sulla prima rete nazionale mostrando il primo piano di bambini rifugiati in un campo profughi, al punto che la domanda di Mambulu, inevitabile, è: “dov’era l’Ordine quando questo accadeva?”.
La necessità di dare un’informazione imparziale e precisa, utilizzando i termini giuridicamente appropriati – perché “non si può credere che rifugiato, richiedente asilo e vittima di tratta siano la stessa cosa”, ha detto Mambulu – è qualcosa che entra pienamente nel rispetto di questi codici etici e nella comunicazione interculturale. Solo quando questi pilastri sono rispettati si può dare finalmente uno sguardo alle good practices messe in atto da chi di intercultura si occupa per professione.
Ecco allora che l’intervento di Marina Lalovic, giornalista serba a Radio 3 Mondo e documentarista per Babel TV, appare emblematico in molti sensi: “la redazione di Babel TV è molto eterogenea. Per scelta abbiamo deciso di “contaminarci”, seguendo ciascuno la comunità di riferimento dell’altro. Questo è stato fondamentale, perché uno sguardo esterno sulle comunità permette di essere più oggettivi e fare delle domande che per chi ha la stessa origine possono essere scontate”. Il rischio maggiore, per Marina, è quello di chiudersi in se stessi, diventando autoreferenziali. Inserire dei migranti nelle redazioni italiane, come proposto anche da Stephen Ogongo, fondatore di AfricaNews, potrebbe essere una soluzione efficace: “un congolese tratterà una questione economica con un punto di vista molto diverso rispetto a un italiano”, sostiene Ogongo intervenendo dalla platea.
Durante il seminario c’è tempo anche per mostrare dei lavori: Marina proietta il suo “Tutti a scuola”, delizioso servizio sulla scuola Pisacane di Torpignattara, ben nota alla cronaca romana per la sua particolarità: su 166 bambini, 130 sono stranieri. Un valore aggiunto, come mostra il video, soprattutto se si considera che le maestre si impegnano a fondo per supportare i piccoli allievi nell’apprendimento della lingua, anche grazie alle associazioni di volontariato che operano sul territorio. Ma le critiche non sono mancate: “mi hanno fatto notare che mancano i lati negativi. Molti genitori hanno ritirato i figli dalla scuola, avrei potuto mostrare anche questa faccia della medaglia. Certo, in un servizio di quattro minuti il tempo è ristretto, e bisogna fare delle scelte…ma terrò presente il consiglio”, ammette Marina.
Di dieci minuti è invece il filmato presentato da Beatrice Kabutakapua e Gianpaolo Bucci, parte di Invisible cities, serie di documentari sulle comunità migranti nei cinque continenti. L’incontro tra i due è stato fortuito, spiega Beatrice, ma ha presto dato vita a una collaborazione fruttuosa. Il progetto è ambizioso: realizzare tredici documentari girati in tredici quartieri di altrettante città diverse. Hanno iniziato da Cardiff, per filmare poi Bruxelles, Istanbul, Roma. Molte altre ne seguiranno, anche oltreoceano: lo scopo è quello di raccontare dall’interno le comunità africane migranti, mostrandone gli aspetti che le caratterizzano e quelli che possono aver scatenato, in alcuni casi, tensioni sociali. Per portare avanti l’idea il fattore decisivo è il tempo: “per ottenere una certa spontaneità da parte dei protagonisti dei nostri documentari abbiamo bisogno di entrare in empatia con loro. Per questo servono mesi”, racconta Beatrice, che filmando uomini e donne delle varie comunità ha stretto delle vere e proprie amicizie. Da freelance, programmare dei tempi di ripresa e montaggio così diluiti non è un problema, anche perché la mancanza di fretta consente di affinare la tecnica, imparando ad essere presenti ma discreti: invisible, appunto, come le cities che rappresentano. Gianpaolo ha fatto un grande lavoro su se stesso: “ho modificato il mio stile sia nelle riprese che nel montaggio: abbiamo iniziato con telecamera e luci, per terminare con una reflex e un piccolo microfono. La differenza è enorme, al punto che gli intervistati spesso dimenticano persino di essere ripresi”. Anche Beatrice ha lavorato molto sulle interviste: “prima di ogni contatto con gli intervistati ci sono lunghe ricerche. Inoltre ci vuole del tempo per approcciare un quartiere che non si conosce: i pregiudizi purtroppo ci sono e vanno smontati poco a poco. Le interviste non sono dei botta e risposta, ma delle chiacchierate tra amici: si parla di sogni, progetti, amori passati…di tutto”.
A chi dal pubblico auspica che perseguire un approccio “umano” come hanno fatto Beatrice e Gianpaolo diventi uno standard all’interno delle redazioni, Marina risponde con maggiore senso pratico: spesso, purtroppo, tempi e modi di realizzazione di un’intervista sono indipendenti del giornalista. Emerge un nuovo elemento, quello della fretta, tra le principali cause di un giornalismo approssimativo.
Si va oltre, analizzando le fonti di informazione: “le conferenze stampa non valgono quasi più nulla: oggi le principali dichiarazioni dei personaggi di spicco vengono fatte su Twitter”, o problemi etici più ampi: “come si fa a rendere appetibile un giornale straniero agli italiani?” o “come si può realizzare dei servizi davvero in grado di far tremare i potenti?”.
Mantenere alta la qualità del servizio sembra essere la principale risposta a tutti questi interrogativi. Una buona norma che un giornalista farebbe bene a tenere sempre a mente, che si parli di intercultura o meno.
Veronica Adriani
(13 dicembre 2013)