12 anni schiavo, il peccato di una Nazione

12 anni schiavo, le locandine italiane (al centro di alcune polemiche...)
12 anni schiavo, le locandine italiane (al centro di alcune polemiche…)

Stati Uniti, 1841. Mancano più di 20 anni alla Proclamazione dell’emancipazione di Abraham Lincoln. In un paese diviso tra Nord e Sud, abolizionisti e schiavisti, uomini liberi e “schiavi negri”, un musicista, Solomon (Chiwetel Ejiofor), attraversa questa invisibile direttrice, rimanendo per 12 anni schiavo di suoi simili.

In uscita oggi nelle sale italiane, candidato a 9 premi Oscar (meritati forse 3), il nuovo film del giovane regista Steve McQueen, nome che ancora non riesce a tramontare l’attore, dopo Hunger e Shame, affronta il difficile racconto della storia vera di un uomo e del “peccato originale” di una nazione.

There’s a sin, a fearful sin, resting on this nation scriveva Solomon Northrup nel 1855, contadino e violinista, “nero libero” di New York, rapito a 32 anni con la scusa di un’offerta di lavoro a Washington, la città con il più grande mercato di schiavi legale dell’epoca. I trafficanti lo drogarono con la belladonna e poi lo caricarono insieme ad altre persone su una nave verso New Orleans, da lì, da un uomo spietato che “giustamente” si chiamava Theophilus Freeman (Paul Giamatti),  fu venduto a diversi proprietari di piantagioni di cotone in Lousiana, vivendo in condizione di schiavitù per 12 anni. Il ricordo di quella vita è racchiuso nel suo libro di memorie Twelve Years a Slave.

McQueen ci ha provato. La storia è molto fedele, e il regista ha detto di aver preferito un po’ di tradizionalismo per una questione di rispetto – “una storia vera lo impone, non permette eccessi di invenzioni visuali”. Ma le invenzioni sono talmente poche che si rischia la superficialità: la storia intensa di un uomo che prima ha sofferto per la propria libertà e poi lottato per quella di tutti, non permette nemmeno scelte semplici o sensazionaliste. Il mostruoso problema di una Nazione sottolineato da Northrup, l’aver legalizzato la schiavitù di esseri umani per puro interesse (risparmio) economico, è oscurato dalle orribili conseguenze, tutti gli abusi e le violenze di personaggi monodimensionali senza spessore, tutti amanti della violenza gratuita. Primo tra tutti Michael Fassbender, l’odioso master, ormai un’ossessione per McQueen (tre film su tre). Il film lascia perplessi anche quando cerca di dare un significato, liquidato in un’unica frase, oltre metà film – “le leggi cambiano, le verità universali sono costanti” – affidata a un estemporaneo Brad Pitt, il carpentiere, abolizionista canadese, che aiutò Solomon a uscirne, contattando i suoi familiari. Probabilmente è impossibile dar conto della complessa tragicità di una storia simile, ma è fastidioso puntare su una schiena martorizzata dalle frustate, o peggio, sull’isterica gelosia della moglie dello schiavista e conseguenti rivalse sulle schiave.

Django, con tutto che non si era risparmiato in termini di “ossa e sangue”, ha restituito al tema più dignità, senza esimersi dal toccare perfino le corde dell’umorismo. Entrambi, Django e Solomon, uno attacca, l’altro aspetta, sono protagonisti speciali, due storie “fortunate” nel dramma di milioni di persone che non ce l’hanno fatta. Forse bastava quel Di Caprio schiavista, un magistrale Mr. Candieland, a farne cento, cinematograficamente parlando, con la sua lezione di frenologia quasi amletica che guarda al significato più grande; e forse bastava la storia vera di Solomon Northrup che, da fervente attivista, scomparve nuovamente nel 1863 e da allora nessuno seppe più nulla. Sicuro il merito più grande di questo film sta nel fatto che da oggi molte più persone la conosceranno, e magari indagheranno di più. L’aspetto che non si dovrebbe mai dimenticare è che la schiavitù esiste ancora oggi.

Alice Rinaldi(20 febbraio 2014)

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