Lavoratori migranti: nessun diritto (alla pensione)

Pensione
Fonte: web

“Ai giorni nostri, la parte peggiore del lavoro è ciò che capita alla gente quando smette di lavorare.” Le parole dello scrittore Gilbert Keith Chesterton riassumono perfettamente quanto sia complicato cogliere i frutti dei sacrifici di una vita. E in alcuni casi addirittura improbabile.

In Italia la possibilità di andare in pensione è appesa al filo delle riforme che ridefiniscono le regole del gioco, più o meno, ad ogni cambio di governo. Anzianità contributiva (anni di lavoro e contributi versati) e vecchiaia anagrafica sono i due requisiti fondamentali. Sintetizzando: si può andare in pensione indipendentemente dall’età se si possiede un’anzianità contributiva di almeno 40 anni. Oppure bisogna aspettare di raggiungere il limite anagrafico, che ogni anno aumenta, ed è necessario aver versato i contributi per almeno 20 anni. Con delle differenze tra uomini e donne, e tra lavoratori autonomi, dipendenti del settore privato e della pubblica amministrazione.

La matassa di variabili e di relazioni in cui si perdono gli italiani quando smettono di lavorare, si fa ancora più ingarbugliata per gli stranieri. L’associazione Roma-Dakar recentemente ha posto l’accento sulla questione facendo notare che gli stranieri nel nostro Paese rappresentano circa il 13% della forza lavoro, ma percepiscono solo lo 0,2% delle pensioni pagate dall’Inps.

Claudio Piccinini, coordinatore dell’area immigrazione INCA CGIL, spiega: “La riforma Fornero ha penalizzato chiunque richieda la pensione. Ma la situazione è ancora più complicata per i migranti che hanno una storia lavorativa molto frammentata e debole, con dei versamenti più esigui. A prescindere dalle ultime riforme, sono penalizzati perché non possono far valere la contribuzione maturata in paesi diversi, come accade per gli italiani all’estero. E se non raggiungono una certa anzianità contributiva, ciò che è stato versato va perso. Legittimo pensare che qualcuno si sia fatto bene i conti”.

“Siamo prigionieri in questa condizione”, dice Ibrahima Camara che vive e lavora in Italia da 15 anni, e quando è arrivato dal Senegal aveva alle spalle una carriera di insegnante lunga 10 anni. Ha svolto diverse professioni, sempre in regola, e ora ha un contratto a tempo indeterminato come operatore socio educativo presso una cooperativa municipalizzata ad Aprilia. “Io tornerei nel mio paese anche domani. Ma non voglio perdere i contributi versati negli ultimi 15 anni”.

E, infatti, continua Claudio Piccinini: “ In alcuni casi l’unica soluzione per chi ritorna nel paese d’origine è una pensione calcolata secondo il sistema pro-rata (per cui ogni paese paga la quota maturata sul proprio territorio ndr). E si può richiedere solo intorno ai 70 anni, un’età fuori dall’aspettativa di vita media in certe regioni del mondo”.

I tempi sono lunghi anche per avere una semplice risposta ed è tutto vago e complicato. Viene un dubbio: lo fanno per scoraggiarti o c’è davvero una cattiva gestione? Per risolvere la questione è fondamentale lavorare su una cooperazione internazionale che sia reale. Vorremmo che il governo italiano ascoltasse i migranti per le questioni che riguardano i migranti. Noi ci siamo”, dice Ibrahima Camara. 

Le convenzioni bilaterali basterebbero a garantire il diritto alla pensione per i lavoratori con gli stessi doveri degli italiani, ma qualche diritto in meno. “Stipulare degli accordi potrebbe essere utile anche per i rapporti tra le pubbliche amministrazioni, per la sanità, per una serie di questioni. Gli altri stati solitamente sono disponibili a collaborare. Ma il nostro paese non è in grado di stipulare convenzioni per la sicurezza sociale”, conclude Claudio Piccinini.

Rosy D’Elia(29 luglio 2014)