Forse resterà uno dei pochi giorni di sole che picchia forte in questo luglio romano. Il muro lungo e grigio del C.I.E. di Ponte Galeria è infuocato, fa un caldo da star male. Solo un refolo di vento arriva su questa delegazione di persone che può entrare in uno dei posti più controversi e discussi dei nostri giorni: il centro di identificazione ed espulsione, per migranti irregolari. Accanto a me Miguel, rom sinti di Lucca. Vibra già come una corda tesa, forse perché anche su lui e la sua etnia pende una spada di Damocle, come quella che pende sulla testa di chi ci attende dietro quel muro. Accomunati, ecco la parola giusta. “I miei parenti hanno fatto la guerra mondiale in Italia – dice Miguel – i sinti sono presenti dal 1400 in questa Paese, eppure mi devo sentir dire che non siamo italiani, sia dalla legge che dalla gente”. Miguel è già carico. Intanto arriva Gabriella Guido, portavoce della campagna LasciateCIE Entrare, che ha organizzato la delegazione. Ora ci siamo tutti, il cancello si apre. A fare da Virgilio – visto il girone dantesco che stiamo per visitare – c’è Floriana Lo Bianco, direttrice di Auxilium, cooperativa che gestisce il c.i.e. di Ponte Galeria e che ci conduce al primo bivio: reparto uomini o reparto donne? Attualmente nel C.I.E. ci sono 83 maschi e 33 femmine. Ne potrebbe ospitare oltre 300.
Scegliamo di dirigerci verso l’ala maschile. Dopo aver visto l’infermeria, un ufficio per il disbrigo di pratiche, la porta si apre sulla grossa gabbia. Anche se sono passati giorni, quelle sbarre restano negli occhi più di ogni altra cosa. Il reparto uomini, come sarà anche quello delle donne, è una grossa prigione di sbarre spesse, formata al suo interno da altre piccole gabbie. Ciascuna ha il suo alloggio – dove i migranti dormono, mangiano, si lavano. Davanti ad ogni alloggio – che ospita in media cinque o sei migranti – un piccolo cortile. Il cancello di ogni piccola gabbia dà sul corridoio, lo spazio comune che i migranti condividono quando hanno le “ore d’aria”. Anche il cielo è a strisce, perché pure il corridoio è parte della grande prigione.
Alcuni migranti vanno a giocare a pallone: si fanno due turni al giorno, di un’ora, con dieci giocatori alla volta. “Le uniche attività che vogliono fare sono quelle sportive – commenta Floriana – rifiutano tutto il resto, sia educativo o formativo. Vogliono solo uscire di qui“. Sono magrebini soprattutto, poi nigeriani. Mentre parlo perdo di vista Miguel. Quando lo rivedo, capisco che sta saltando di gabbia in gabbia, da una storia all’altra. Sembra che conosca tutti.
Anche io intanto colleziono storie. Samir tunisino, da dieci giorni nel C.I.E., chiede “Ma sei della tv? Perché mia madre ha guardato per mesi tutti i tg italiani, per vedere la mia faccia, per esser sicura che il mio viaggio attraverso il mare fosse andato bene”. Rami “ho una spada in gola. Parlare e sfogarmi con te mi aiuta – si scalda – in carcere sapevamo quanto tempo sarebbe durata la condanna, qui no. Siamo entrati perché eravamo senza documenti. Non sappiamo quando usciremo”. E’ questo il grido più forte che li accomuna. All’inizio restavano, negli allora centri di permanenza temporanea, trenta giorni, nel 2002 sono diventati C.I.E. e i giorni sono passati a 60, nel 2008-09 a 180 e nel 2011 a un anno e mezzo. In realtà chi è rimasto di più in questo C.I.E., a memoria delle persone ascoltate, è 9 mesi.
La ristrettezza delle sbarre non ha fermato il ramadan. I 36 musulmani hanno pregato in una stanza. Coperte a terra, scritte sul muro – una recita così “Allah è grande”- un mobiletto con i libri. Arriva l’imam, appena docciato. Un ragazzotto che non parla bene l’italiano, ma che i musulmani del C.I.E. hanno eletto a loro guida. “Lui ci legge il Corano – dice Rami – poi innalza la preghiera ad Allah. La nostra è sempre una preghiera di libertà. L’unico ostacolo è stato non aver potuto fare la prima, quella dell’alba, 3.47”. Rami confessa “a me piace pregare, ma più prego e più mi sale la rabbia. Avrei voglia di spaccare tutto”. Forse la preghiera ingrossa così tanto la sua anima che, sbattendo e dimenandosi contro quelle sbarre, crea quell’attrito doloroso e rabbioso.
Un ex minatore del Cile mi dice “Vai a vedere sui registri delle uscite. Chi fa grossi crimini resta in Italia, chi invece ne fa piccoli viene espulso”. Chiedo al alcune persone che incontro nel centro e l’ipotesi, non certificata da nessuna indagine o statistiche, è che i consolati rallentino molto le pratiche quando si tratta di casi molto gravi: come a dire “tenetevi i peggiori delinquenti”. Floriana intanto mi dice che in realtà solo “il 44%, quindi meno della metà di coloro che sono nel C.I.E., vengono espulsi. Gli altri ricevono un foglio di via e girovagano irregolari in Italia, fin quando vengono presi e riportati qui o in altri centri.
Prosegue la visita in mensa, dalla parrucchiera delle donne, negli uffici. Chiedo a Floriana delle polemiche sui costi dei C.I.E. “Noi, momentaneamente siamo in proroga, perché si stanno esplicitando le procedure per la riassegnazione dell’appalto, di cui non si conoscono ancora gli esiti. In altre città d’Italia, come Bologna e Modena, la gestione è stata affidata con delle gare a ribasso, con una quota a meno di 30 euro per ogni giorno di permanenza di un migrante nel C.I.E.”. Una cifra molto bassa faccio notare e Floriana aggiunge “se si pensa che nella precedente gare la quota era di 41 euro, diciamo che la corposa differenza può rende difficile fornire tutti i servizi che attualmente riusciamo a garantire”. Salutiamo Floriana ed il cancello si chiude alle nostre spalle. “Visto?” afferma Gabriella Guido “sono centri disumanizzanti, inefficaci, costosi e vanno chiusi presto”. Punto. ricontatterò.
Passano dei giorni e cerco Miguel al telefono. Non riesce a parlare. Sento che è ancora scosso. Non ha voglia o forse non ritiene opportuno raccontarmi la sua esperienza dentro il C.I.E. di Ponte Galeria, eppure una cosa me la dice. “La visita fatta è stata devastante per me, ma ciò che più mi ha colpito è vedere persone nate in Italia marcire tra quelle sbarre. Figli non riconosciuti, negati, dall’Italia”. Finisce come era iniziato questo viaggio nei C.I.E., con le parole di Miguel, ma intanto, dentro, qualcuno, qualche giorno fa, è tornato a cucirsi la bocca.
Fabio Bellumore
(31 luglio 2014)
“Reclusi senza reato”: Forum Immigrazione PD e CIE
Basta CIE: 10.000 in corteo a Ponte Galeria
Suor Eugenia e le migranti del C.I.E. di Ponte Galeria
Il CIE di Ponte Galeria con gli occhi di Zakaria