La Roma meticcia non si ferma e rilancia. Dopo la manifestazione di dicembre sabato 15 febbraio marcia compatta verso Ponte Galeria al grido “facciamoli uscire” per chiedere la chiusura di tutti i CIE. 10.000 i partecipanti secondo gli organizzatori.
Un corteo che si annuncia caldo dopo l’adozione di misure cautelari nei confronti di 17 esponenti dei movimenti per il diritto alla casa e l’espulsione di due ragazzi che avevano preso parte alla protesta delle bocche cucite. Al mattino la notizia di un altro rimpatrio, cui si aggiunge il sequestro del camion con gli impianti di amplificazione che avrebbe dovuto facilitare il coordinamento della manifestazione. “È chiaramente una strategia per alzare la tensione o spaventarci ma noi non ci fermiamo” dichiara un’attivista di Action.
“Stanno ristrutturando una parte del CIE chiusa dopo l’ultima rivolta” annunciano gli organizzatori dal megafono “Pensano che basti una mano di vernice per farli sembrare luoghi umani, ma noi non ci stiamo ai lager di stato: i CIE non si possono riformare, i CIE vanno chiusi”.
Sfilano da Parco Leonardo a Ponte Galeria madri di famiglia, studenti, attivisti. Italiani e stranieri insieme per manifestare la propria solidarietà a chi sta dietro quel muro, dove finiscono donne che hanno denunciato violenze, minori, cittadini del mondo colpevoli soltanto di aver cercato una vita migliore.
Tra i manifestanti c’è chi come Hassan è arrivato dal Biafra ventitré anni fa con una laurea in giornalismo e oggi è senza lavoro. Chi come Samir il lavoro l’ha perso dopo 25 anni e tanti stipendi e contributi non versati che non è riuscito a recuperare neanche con una vertenza: “Noi siamo una risorsa per l’Italia, ma non si fa altro che speculare sulla nostra pelle in campagna elettorale o sfruttarci nelle cooperative a 3 euro e 50 l’ora. Nessuno, né a destra né a sinistra, ha mai fatto niente per proteggere gli stranieri”.
C’è chi come Tatiana, studentessa 19enne, sogna di tornare in Perù e chi, come il 24enne Leonardo, in Equador non vuole tornarci, perché dopo tanti anni trascorsi in Italia: “Sono più straniero lì”. E allora la precarietà diventa una vita in scadenza: “Ho ancora un anno di permesso per motivi familiari, poi dovrò inventarmi qualcosa”. Perché il soggiorno è legato al lavoro, ma di lavoro non ce n’è, anche se lui si è adattato a fare di tutto: “Probabilmente diventerò clandestino”.
Sfila il corteo lungo via Portuense. Ci sono i tamburi e i colori della murga. Ma ci sono anche sguardi che è difficile sostenere. Madri che mostrano le foto dei figli, di cui non hanno più notizia da quando sono partiti per l’Italia. Occhi che hanno vissuto le atrocità di viaggi nei camion e prigioni nel deserto. Ci sono caschi e sciarpe che coprono i volti.
Intorno alle 17.20 si registrano tensioni quando dalla testa del corteo inizia il lancio di oggetti e bombe carta verso le forze dell’ordine che stanno pattugliando il perimetro del CIE. Gli agenti rispondono con i lacrimogeni, ma i manifestanti agganciano corde e arpioni alla rete di protezione esterna e riescono a sradicarla. Uno squarcio dal potente valore simbolico: da oggi il CIE non è più un territorio invalicabile.
Mentre la manifestazione raggiunge l’ingresso della struttura l’agitazione si placa. E nel cielo di Ponte Galeria si innalzano lanterne colorate, per dire ai reclusi “Noi siamo qui, non siete soli”. La mobilitazione nazionale proseguirà il giorno seguente al Cara di Mineo.
Sandra Fratticci
(16 gennaio 2014)
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