Mai più CIE, “qui dentro la prima cosa che muore è la speranza”

"Il 13 marzo 2010 alcuni reclusi si sono arrampicati sul tetto gridando Liberté" - Ponte Galeria, fotografie di Iskra Coronelli
“Il 13 marzo 2010 alcuni reclusi si sono arrampicati sul tetto gridando Liberté” – Ponte Galeria, fotografie di Iskra Coronelli

“Nella più disarmante tragicità, cosa differenzia una persona che sta dentro un Cie rispetto a una che non ci sta? La sfiga.” La platea sorride, ma è probabilmente la frase che meglio ha descritto la paradossale gestione dell’immigrazione oggi, soprattutto in Italia, durante l’incontro Mai più Cie organizzato dagli studenti di Scienze Politiche della Sapienza, in vista del corteo nazionale (il 15 alle 15) che chiede la chiusura del Cie di Ponte Galeria, alle porte di Roma e agli onori delle cronache, scenario della recente protesta delle bocche cucite.Dopo un’interessante introduzione sul cambiamento sociale – “secondo alcuni studiosi c’è oggi una “turbolenza delle migrazioni”, tanto che i flussi non sono più tracciabili” – si chiarifica l’intento dell’incontro, quello di “mostrare tutte le connessioni che esistono tra i movimenti migratori, l’economia e la politica“, dice Gloria in rappresentanza degli studenti. Sullo sfondo un vero e proprio caos giuridico, per cui quella che nella legge europea viene definita “un’ipotesi residuale”, “l’essere trattenuti”, in Italia sia stata curiosamente invertita nella norma, divenendo iniqua e nemmeno funzionale. “99 persone su 100 non passano per i Cie, siamo di fronte a una “rappresaglia” più che al rispetto di una regola giuridica” commenta Salvatore Fachile dell’Asgi, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione.Da tutte le parti i Cie vengono descritti come l’immagine lampante di innumerevoli disfuzioni: lesivi dei diritti in quanto specie di “istituti bioregolatori della manodopera a basso costo”; con una “funzione governamentale, politica e autoritaria” (piuttosto che europea), dai costi elevati (che potrebbero essere investiti in altro modo: la ricerca di Lunaria, che si occupa di migrazioni, ha stimato che “più della metà delle spese è stata utilizzata solo per i rimpatri coatti”), inefficaci dal punto di vista delle politiche sociali (è più alta l’emersione di chi non passa per i Cie). “Non si può pretendere di umanizzare ciò che non dovrebbe esistere”, commenta Gloria, “ridurre il tempo massimo di permanenza da 18 a 12 mesi è insufficiente”. Come se di fatto un anno recluso per non aver commesso reati fosse poca cosa.

“Il 13 marzo 2010 alcuni reclusi si sono arrampicati sul tetto gridando Liberté” – Fotografie di Iskra Coronelli

Francesca De Masi sa qual è la differenza tra chi sta in un Cie e chi non ci sta perché conosce la sezione femminile di Ponte Galeria. Ogni settimana parla con donne che sono state “vittime di sfruttamenti intensivi” e quindi rinchiuse nel Cie, “anche se denunciano gli abusi, ma può un presunto reato di clandestinità essere più forte di una storia di violenza?“.Francesca lavora con la cooperativa Be Free che gestisce uno Sportello di consulenza psicosociale e legale per donne vittime della tratta, “vogliamo far emergere le storie di sfruttamento lavorativo o sessuale che ci raccontano, e far valere diritti che sono già riconosciuti dalla legge italiana. La maggior parte di loro sono nigeriane, in generale quelle che più subiscono “la deportazione” come la chiamano loro”, d’altra parte “quella della Nigeria è l’unica ambasciata che entra nel Cie e le riporta sempre indietro, le accompagna a Fiumicino e le carica su un aereo. E noi rimaniamo qui a chiederci dove andranno queste ragazze? Verranno ritrafficate? O ammazzate? La tratta è un business che rende 32 milioni di dollari l’anno, più le vie legali per entrare diventano securitarie“, “il neologismo dell’immigrazione” già la dice lunga, “più la tratta si arricchisce”.

L’immigrazione non riguarda solo l’Italia, è vero, ma è necessario che si renda conto che il suo ruolo è politicamente fondamentale: “Lampedusa ormai è una condizione esistenziale“, dice Gloria. “Basti pensare a Lampedusa in Hamburg“, una protesta di 300 rifugiati, fuggiti in seguito alla guerra civile in Libia, che combattono per il diritto al permesso di soggiorno in Germania, “spediti” lì direttamente dall’Italia, previo rimborso di 500 €, all’epoca della discussa (e governativa) “Emergenza Nord Africa”.Lampedusa è una frontiera che si ripete. A Ponte Galeria sono quasi tutti arabi, ma Tufail viene dal Bangladesh e si presenta in compagnia dell’associazione Yo Migro e del traduttore. Racconta il suo recente benvenuto in Italia che era minorenne: tre accertamenti dell’età, tra Cie e ospedali militari, tre interrogatori senza avvocato, tra Questura e Giudice di Pace, e un mese a Ponte Galeria.Le ultime parole vanno al recentissimo documentario, proiettato in seconda nazionale, UE 013 L’ultima frontiera, girato da Raffaella Cosentino e Alessio Genovese, proprio nel Cie di Ponte Galeria. Parole di chi sta lì dentro ora, clandestini che parlano con questo italiano: “prima si combatteva tra est e ovest, il comunismo contro il capitalismo, adesso si combatte tra nord e sud, i ricchi che combattono contro i poveri, e così quelli si rinchiudono lasciando fuori la povera gente. La storia è fatta per essere ricordata, non per essere rivissuta. Si dice che la speranza è l’ultima a morire, qui dentro la prima cosa che muore è la speranza“.

Alice Rinaldi(11 febbraio 2014)

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