Arcipelago CIE: incapaci di garantire la dignità umana

Medici per i Diritti Umani chiede: “la chiusura di tutti i centri di identificazione ed espulsione attualmente operativi in Italia, in ragione della loro palese inadeguatezza strutturale e funzionale e la riduzione a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, del trattenimento dello straniero ai fini del suo rimpatrio”. La richiesta è basata su un’ indagine sui centri di identificazione ed espulsione italiani, presentata con il libro “Arcipelago CIE” il 13 maggio a Roma da Alberto Barbieri, coordinatore generale MEDU, Maria Rita Peca, MEDU, Marco Zanchetta, coordinatore ufficio Firenze, Marie Aude Tavoso, socia MEDU, Gabriella Guidi, Campagna LasciateCIEntrare. Dal rapporto emerge una grave inadeguatezza dell’istituto della detenzione amministrativa nel tutelare la dignità e i diritti fondamentali dei migranti trattenuti e la scarsa efficacia nel contrasto dell’immigrazione irregolare. Lo studio, compiuto nell’arco di un anno dagli operatori di Medici per i Diritti Umani, include i dati statistici rilevanti e le testimonianze dirette degli stranieri trattenuti e dal personale che opera nei CIE, oltre alle informazioni ottenute dal monitoraggio dei centri di tutta Italia ed Europa. In questi centri transitano: migranti appena giunti in Italia, richiedenti asilo, cittadini comunitari, stranieri presenti da molti anni in Italia, spesso con famiglia, ma senza un contratto di lavoro regolare, immigrati con il permesso di soggiorno scaduto.

“Dobbiamo pettinarci con le forchette perché non ci sono pettini. Nel bagno non c’è la porta. Qui la dignità della donna non esiste. L’acqua calda spesso manca. Fa un freddo cane perché il riscaldamento è rotto. Uno può aver sbagliato a non avere i documenti, ma non è giusto stare in queste condizioni, trattati come bestie, vivendo nella sporcizia perché non c’è igiene. Durante il giorno non sappiamo cosa fare, non ci sono delle attività. Del cibo non mi posso lamentare, ma è l’unica cosa accettabile”, racconta una giovane rom bosniaca del CIE di Ponte Galeria. “Le condizioni al centro sono peggiori che in prigione. I riscaldamenti a volte funzionano, a volte no. Si soffre perché non si sa il tempo che uno deve rimanere qua e non ci sono persone che ti possono dare conforto. Quando vai dal dottore non credono mai che parli sul serio, che soffri veramente”, aggiunge uno dei migranti. Di recente c’è stato uno sciopero della fame al CIE. I trattenuti chiedevano procedure più rapide per chi chiede l’espatrio, che non venga utilizzata la violenza e gli psicofarmaci, che non sia negato loro il diritto alla difesa.

Il CIE di Ponte Galeria a Roma è il più grande centro per la detenzione amministrativa in Italia, attivo dal 1998,  gestito dalla Croce Rossa Italiana fino al 2010, poi dalla cooperativa Auxilium. Il CIE può ospitare 354 persone, di cui 176 uomini e 178 donne, ma “l’orientamento della Questura è quello di dare priorità ai migranti con precedenti penali e, di conseguenza, la struttura verrebbe utilizzata per motivi di sicurezza”. Secondo i dati della Prefettura, i paesi di provenienza più rappresentate nel corso del 2012 sono state: Tunisia, Nigeria, Romania, Marocco e Albania. In media, le presenze nel centro sono 240 unità, per lo più trattenuti di sesso maschile dall’area del Maghreb e dalla Nigeria – 53% – in gran parte donne. Durante le visite degli operatori MEDU si è confermato la presenza, per quanto riguarda gli uomini, di un elevato numero di trattenuti provenienti dal carcere  – l’80% – e di potenziali vittime di tratta a scopo di prostituzione tra le donne – 80% del totale. Un fatto anomalo sarebbe l’alto numero di cittadini comunitari presenti, soprattutto rumeni – 516 persone nel 2010, 304 nel 2011 e 291 nel 2012.

Pericolo di fuga e il disaggio psichico. Molti degli oggetti di uso personale sono vietati nei CIE per evitare la fuga dei trattenuti. Non esiste un regolamento standard interno, in generale le persone che possono decidere sono i mediatori culturali. Gli stranieri qui non possono usare i pettini, le cinte, i lacci, libri e i giornali, in alcuni centri è vietato anche il telefonino, in altri è concesso se è privo di telecamera. La carenza del servizio medico, che non è sostenuto dall’assistenza medica del sistema sanitario nazionale, è un problema emergente: il malato deve essere trasferito all’esterno, scortato dalla polizia, per cui tante visite saltano, s’interrompe il percorso terapeutico e non si diagnosticano i sintomi in tempo. Esiste anche il pregiudizio nel rapporto medico paziente, tante volte si teme che il paziente simuli la malattia per essere trasferito nelle altre strutture e tentare la fuga. Preoccupanti sono i frequenti atti di autolesionismo. Si è rilevato anche un utilizzo esagerato di psicofarmaci soprattutto dalle persone provenienti dai carceri.

Altri problemi che portano al disaggio psichico sono il rapporto tra la capienza e struttura: i dispositivi di contenimento dei settori in cui si trovano ristretti i migranti risultano essere dei recinti – assimilabili a grandi gabbie – che racchiudono spazi di dimensioni inadeguate ed eccessivamente oppressivi. A partire dal 2011 con il prolungamento dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi sono aumentate le proteste, le rivolte e i tentativi di fughe di massa. Anche l’alto numero di trattenuti provenienti dal carcere, la cui identificazione sarebbe dovuta avvenire durante il periodo di espiazione della pena, alimenta le tensioni e difficilmente diventa gestibile la convivenza con gli altri.

Raisa Ambros(16 maggio 2013)

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