Una occupazione sulla Prenestina. Al civico 913, in piena periferia est di Roma. Comincia così, nel marzo del 2009, la storia di quello che diventerà il Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz. Una piccola inchiesta in due puntate.
C’ERA UNA VOLTA UN MATTATOIO
Nihil difficile volenti, “niente è arduo per colui che vuole”. Il motto latino diventa un monito per il MAAM – Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz e i suoi abitanti. La scritta, riprodotta dall’artista Pasquale Altieri, si riferisce al fatto che si può perfino andare nello spazio e tornare con la L.U.N.A., idealmente incastonata da Massimo De Giovanni fra le travi del soffitto del cortile, o perfezionare il progetto della Torre di Babele, perché stavolta la mescolanza di più lingue e culture non ha generato il caos ma ha realmente avvicinato un po’ di più a un dio.
Ovviamente non si possono capire appieno il contesto e la realtà di questo luogo unico, dove l’arte salva lo spazio e lo spazio salva l’arte, senza conoscerne la storia. È il marzo 2009 quando l’ex stabilimento del salumificio Fiorucci in via Prenestina 913, periferia est di Roma, viene occupato con un duplice scopo: quello primario di risolvere problemi abitativi per molti e un atto dimostrativo contro un colosso delle costruzioni proprietario dell’immobile, la Srl Salini.
Prima si iniziava con gli animali vivi. I maiali entravano in un corridoio che si fa sempre più stretto, alla fine storditi con una pistola dalla punta di ferro e appesi per gli arti posteriori su una guidovia che procedeva verso la sala dove si eseguiva lo sgozzamento. Una volta colato il sangue, le carcasse passavano attraverso la macchina scuoiatrice, che ricorda un autolavaggio con tanto di spatole roteanti, finché si passava all’eviscerazione. Sul muro di fronte l’affresco della Cappella Porcina – eMAAMcipazione di Pablo Mesa Cappella e Gonzalo Orquín, che rivisita il percorso dei maiali nella fabbrica, ribaltandolo dalla morte alla vita. Nella sala adiacente, che ospitava le vasche di raccolta del sangue, le opere di Nicola Alessandrini e Vincenzo Pennacchi richiamano quello che queste pareti hanno effettivamente visto per anni.
C’È MUSEO E MUSEO
La suggestione di mettere l’arte in un luogo di morte che per decenni aveva dato da mangiare carne alla gente, Roma l’aveva già vissuta con il Macro dell’ex Mattatoio di Testaccio. Ma mettere “il vivere” dentro un museo e viceversa, come sta facendo il Maam di Tor Sapienza, non lo aveva ancora fatto nessuno. Il Macro, come tutti i musei da sempre pensati, è poi rimasto nella definizione: “acquisisce, ordina, cataloga, conserva, comunica e soprattutto espone cultura, scienza e tecnica”. Bisogna andare in certi orari, di solito si deve pagare un biglietto, e l’opera è chiusa, protetta, per cui di fatto si richiede e si alimenta un certo distacco tra chi realizza e chi osserva, tra l’artista e lo spettatore.
Cosa succede invece se delle persone si insediano in un ex salumificio perché hanno bisogno di una casa e poi arrivano degli artisti che intendono raccontare e valorizzare questa azione? Nel tempo lo spirito dell’arte si allarga fino a coinvolgere tutti, abitanti e visitatori, alimentando la convinzione che possa essere la chiave per salvare tutto.
Siamo quasi in prossimità del Sacro Gra. Di fronte alla facciata imponente, dipinta daBorondo e Kobra, con la scintillante Malala che ti guarda, pensi quanto sia strano venire a sapere di un luogo del genere dal collega fotografo che vive a Parigi o che amici greci vi abbiano già fatto un concerto due anni fa rimanendone entusiasti: strano che il Maam non sia sulla bocca di tutti proprio nella sua città, a Roma, mentre richiama artisti in giro per il mondo.
OCCUPAZIONI E CAMPI ROM
Marzo 2009, dicevamo: grazie al contributo dei Blocchi Precari Metropolitani – organizzazione romana nata nel 2007 per rivendicare il diritto all’abitare – nasce Metropoliz. Ed è già una prima particolarità. Di solito le occupazioni riguardano scuole, uffici, altre case lasciate in stato di abbandono. Tanto che, oltre ai soliti problemi legati all’allacciamento di luce, acqua e gas, la notevole estensione dell’area (20mila mq) ha portato via tempo dedicato alla mappatura, in modo che fosse ben chiaro come e dove ricavare gli alloggi per le circa 200 persone coinvolte, una sessantina di nuclei familiari, con tanti bambini: italiani con i peruviani, rumeni, ucraini, marocchini, comunque persone accomunate da qualcosa, senza risorse e aiuti dallo Stato, che si sono fatte guidare dall’intraprendenza dei Bpm.
La seconda particolarità è stata l’inclusione dei rom nelle lotte per la casa. “Il gruppo del campo di Centocelle, sotto minaccia di sgombero, era incuriosito dal nostro esperimento di autogestione”, racconta Irene dei Bpm. “Non volevano finire in un altro campo organizzato e insieme a noi, nelle manifestazioni, hanno fatto sentire la loro voce, mai ascoltata in questi termini”. Una collettività da sempre avvezza a regole proprie ha iniziato a fare i conti con una realtà più complessa, accettando il compromesso per la crescita. Ad esempio “non concepivano la chiusura del cancello di ingresso”, continua Irene, “difesa contro polizia e incursioni di gruppi di estrema destra” da una parte, e contro aspiranti occupanti dall’altra, non certo per cattiveria ma perché “non si può aumentare all’infinito il numero di abitanti mantenendo uno stile di vita dignitoso”.
UN ANTROPOLOGO E TANTI ARTISTI
Ma fin qui può sembrare una normale storia di occupazioni, pur con la variabile rom. Finché alla porta della città meticcia arriva a bussare Giorgio De Finis, antropologo, artista e regista, accompagnato dal collega film maker Fabrizio Boni. È il 2012 e il primo progetto artistico in cui Metropoliz si imbatte riguarda la realizzazione del documentarioSpace Metropoliz – da poco sono online le ultime puntate – “per ridare voce al sogno”, racconta Giorgio, “giocando sull’impossibile. L’impossibilità di avere una casa e di chiedere la luna, e visto che sono entrambe impossibili… meglio optare per la Luna”.
Il loro film coinvolse i primi street artist che per l’allestimento del set segnarono le prime pareti. Dall’opera di Lukamaleonte, che si staglia sui tavoli (anche d’autore) dell’ampia cucina, che parla dell’extraterrestre/extracomunitario, all’omino di Hogre che risale la torre verso la Luna dove è puntato il telescopio (quasi) vero di Gian Maria Tosatti. Più tante altre opere interne e meno visibili, ma riconoscibili perché ispirate allo spazio nel senso più galattico del termine.
Gli artisti si susseguono, i loro segni arricchiscono lo spazio mentre la vita, sempre un po’ meno precaria, va avanti. Dallo Space Metropoliz nasce il MAAM, il Museo dell’Altro e dell’Altrove, dove per “Altro” si intende la “città meticcia”, come la definiscono gli stessi abitanti, in continua evoluzione, e per “Altrove” tutta l’intenzione di “continuare a mantenere le diversità perché sono un valore”, precisa l’ora direttore artistico di questa enorme “cattedrale d’arte laica” Giorgio De Finis.
Anche gli abitanti, insieme a Francesco Careri di Stalker/Osservatorio nomade, iniziarono a farsi coinvolgere nel gioco dell’arte, contribuendo alla costruzione del razzo, l’essenziale mezzo e simbolo della conquista dell’impossibile. Dopo circa sei mesi, tramite una gru, fu tirato fuori un enorme galleggiante da una delle tre vasche esterne, serviva per la base: “Molti iniziavano a dubitare che la nostra impresa potesse giungere a buon fine, ma questo aveva lo scopo di dichiarare che non avremmo desistito tanto facilmente”, racconta Boni nel film. C’era ancora molto da fare, “bisognava superare l’ambiguità di certi progetti, in posti del genere se alla gente non cambi realmente la vita resta delusa”, racconta Giorgio.
Inizia una nuova metamorfosi, che vi racconteremo domani nella seconda parte di questa inchiesta.
Alice Rinaldi e Gabriele Santoro