Orizzonti Mediterranei, gli sbarchi delle donne

Gli sbarchi delle donne (da leonardo.it)
Gli sbarchi delle donne (da leonardo.it)
Migrazioni, sbarchi, tratta di esseri umani. Il collegamento tra le tre parole è più stretto di quello che si può pensare. A dirlo è Orizzonti mediterranei (2014) di Pina Mandolfo e Maria Grazia Lo Cicero, che porta alla luce la schiavitù e ilgrande rimosso dei cosiddetti viaggi della speranza: la violenza sulle donne”. Un documentario molto diretto e toccante che Piuculture ha presentato davanti a un pubblico numeroso e interessato, venerdì 10 aprile, alle 16.30, al Macro di via Nizza a Roma.Nel film si denuncia “l’aumento negli ultimi anni della presenza di donne, bambini e minori non accompagnati che spesso fuggono all’insaputa dei genitori”. Per quanto riguarda le donne il motivo è chiaro: “il numero di migranti arrivate in Italia nel corso del 2014 è più che triplicato rispetto all’anno precedente. Se si guarda soprattutto alle ragazze provenienti dalla Nigeria si registra un incremento del 300% in rapporto al 2013 (sono 1.290 le giovani arrivate nell’anno corrente, contro le 392 arrivate l’anno scorso). Un fenomeno preoccupante se si considera che la maggioranza delle vittime di sfruttamento sessuale provenienti dai paesi extra-Ue è di nazionalità nigeriana” si legge sul sito della Fondazione Migrantes.
Maria Grazia Lo Cicero e la sua telecamera
Maria Grazia Lo Cicero e la sua telecamera
“L’incontro con queste ragazze ci ha creato un solco nell’esperienza”, raccontano le registe. “L’idea del film è nata in un modo che non pensavamo. Eravamo ai Cantieri Culturali di Palermo perché ci avevano detto che la psichiatra Enza Malatino era appena tornata da Lampedusa” dove dal 2001 si occupa dell’assistenza psicologica ai migranti che sbarcano nell’“isola dell’illusione” attraverso gruppi di ascolto presso il Centro di accoglienza. “Raccontò cose atroci”, come la bambina che vide sua madre gettare in mare i suoi due fratellini morti per delle febbri, “e fummo subito colpite dalla sua emotività. Una professionista come lei, che sicuramente aveva ascoltato di tutto, con la voce rotta in gola. Ci siamo guardate in faccia e ci siamo dette che dovevamo fare qualcosa. A partire dal nostro essere donne, perché anche l’occhio di chi gira fa la differenza”.“Sono una donna di cinquant’anni ormai, ho vissuto il dolore”, racconta Maria Grazia, insegnante di scuola primaria oltre che documentarista, “ma non mi era mai capitato di incontrare persone che lo avessero scritto nel volto in modo così palese. Credo sia la concreta paura della violenza e della morte”.
Pina Mandolfo
Pina Mandolfo
Quando Maria Grazia racconta si emoziona ancora. Lei e Pina hanno incontrato persone scappate da ogni parte dell’Africa, da guerre, violenze e povertà. Si riferisce in particolare a un’intervista, condotta dalla Malatino, a un fratello e sorella scappati dal Sudan. Come per tutti il loro ultimo approdo è il Mar Mediterraneo, ma prima ce n’è un altro ancora più terribile, il deserto del Sahara. Se sei scampato a quello, non è detto che sia possibile salvarsi dalla prigione. Aspettare in Libia è pericoloso, solo chi paga di più parte prima: “già all’arrivo del confine molti migranti vengono arrestati” e le carceri qui sono spaventose, sia gli uomini che le donne subiscono torture e violenze sessuali. “Ognuno dei due ragazzi cercava di preservare l’altro dal racconto delle violenze subite”.“Non è stato facile arrivare alle testimonianze, anche se garantivamo l’anonimato. Abbiamo girato la Sicilia in lungo e in largo, più volte siamo state sul punto di mollare”. Fondamentale è stata la mediazione della Malatino, mentre “noi cercavamo di essere il più discrete possibile”. Alcune interviste sono state fatte di nascosto con ospiti dei centri: “non solo non si dovevano vedere i volti, ma nemmeno i contesti”.“La sensazione che abbiamo avuto è che si poteva parlare dei morti in mare, però…, anche da parte dei mediatori, c’era una specie di chiusura, pregiudizio nei nostri confronti che volevamo fare testimonianza. ‘Perché parlare della violenza?’ ci chiedevano. Il responsabile di un centro ci ha detto: ‘Perché dovrebbero dirvelo?’ Noi abbiamo risposto perché quando si sa, si ha consapevolezza di qualcosa, la certezza di quanto sia avvenuto, tutti abbiamo il dovere di denunciare. Se ognuno di noi facesse testimonianza la società sarebbe più giusta”.
Le ragazze di Benin City. La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d'Italia, di Laura Maragnani e Isokè Aikpitanyi
Le ragazze di Benin City. La tratta delle nuove schiave dalla Nigeria ai marciapiedi d’Italia, di Laura Maragnani e Isokè Aikpitanyi
“L’aspetto più complicato quando parliamo di migranti è la riluttanza a livello ideologico”, secondo le registe, “il terrorismo sta diventando la sovrastruttura. Il tema della migrazione, in questi ultimi mesi, infonde solo paura. Ci sono i soliti discorsi qualunquisti o razzisti, ma se parli con la gente oggi vedi soprattutto la loro sensazione di essere a rischio. Questo non aiuta a guardare con calma a quello che sta succedendo nel nostro mare”.“Il mare per noi siciliani ha sempre avuto tanti significati importanti, è il luogo della nostra malinconia. Pina è di Catania, io di Palermo”, dice Maria Grazia, “il nostro mare improvvisamente è diventato luogo evocativo di morte”.Isokè Aikpitanyi, nigeriana, è l’unica ex vittima della tratta che si vede in viso. E anche il suo parla molto. Oggi è la donna simbolo a Palermo che lotta contro lo sfruttamento, organizzando corsi nelle scuole e ospitando le ragazze che ne hanno bisogno. “Ognuno nelle proprie responsabilità deve fare qualcosa”, qualsiasi piccola cosa. “Lei mette in campo quello che ha vissuto” – picchiata perché voleva ribellarsi alla prostituzione e ridotta in coma per tre giorni – “noi usiamo la telecamera”. Maria Grazia aggiunge: “credo sia uno strumento importante, anche per la scuola. È stato difficile realizzare questo documentario, ma ora siamo felici di avercela fatta perché l’interesse e il ritorno che sta avendo tra i ragazzi è già molto”.“Perché se ne parla così poco? È come se tutta questa violenza venisse considerata come un effetto collaterale che bisogna mettere nel conto. Come fosse il giusto tributo perché hai avuto salva la vita”. Ma ridurre in schiavitù un’altra persona non è forse l’apice del razzismo? Ancora schiavi africani, ancora prostitute, soprattutto nigeriane (in Italia costituiscono il 60% del totale).“Il razzismo non dovrebbe esistere”, chiude Maria Grazia con un filo di sconforto, “può sembrare una cosa semplice, ma ai miei alunni dico sempre di ricordare che non c’è nessuna bravura nel nascere in Africa o in Europa”.

Alice Rinaldi(27 marzo 2015)

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