Parlano i migranti del Centro Baobab: Roma per noi è solo una tappa

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Fotografie di Adamo Banelli

Roma non è vicina a nessuna frontiera. Ma anche la capitale ha i suoi scogli, come Ventimiglia. La settimana scorsa i migranti che si erano insediati lungo le mura del cimitero del Verano fino alla stazione Tiburtina sono stati sgomberati. Una parte di loro, 200 circa, ha trovato posto nella tendopoli allestita in zona dalla croce rossa, gli altri hanno affollato il centro Baobab: sono circa il triplo della capienza massima.

È ora di cena e da poco ha cominciato a piovere. In via Cupa la fila per il pasto si estende su buona parte della strada: gli uomini da una parte e le donne dall’altra. Sono schive, stanche, riservate. Mentre i ragazzi scrutano con sguardo interrogativo chi è esterno alla fila. Sono quasi tutti eritrei ed etiopi, e sono giovanissimi.

Naom, come gli altri, aspetta il suo turno all’esterno della struttura, ha vent’anni. “Sono qui da qualche giorno, una settimana fa ero in Sicilia, ma stasera prenderò un treno per Bolzano”, è in viaggio con tre amici e continuerà il percorso con loro. Il nostro nord sarà, per loro, la porta per il nord Europa. Come aveva immaginato l’Italia quando viveva ad Asmara? “Mi aspettavo qualcosa di meglio”, dice.

Nel frattempo si avvicina Abel: ha l’aspetto acerbo, timido e insicuro dei suoi 16 anni. Tira fuori un foglio dalla giacca e chiede di fare una telefonata alla sorella che vive in Germania. Le chiede informazioni su come reperire i soldi che ha versato per lui, ma che l’intermediario non gli permette di ritirare. “Devi pazientare ancora qualche giorno”, si sente dall’altro capo del telefono. Ma lui spiega che quei soldi sono il suo lasciapassare: senza non può proseguire il viaggio. È partito un anno fa dall’Etiopia, prima di arrivare a Roma è stato in Eritrea e poi in Sudan, in Libia e infine a Lampedusa e a Salerno. “Lì ero in un posto terribile, nessuno ci diceva cosa fare, eravamo tutti ammassati e non avevamo nemmeno la possibilità di fare una telefonata”. Non ha fretta di concludere la conversazione, anzi la alimenta, ci chiede i nostri nomi, li pronuncia e sorride per quei suoni tanto diversi dai suoi. Ci chiede se abbiamo figli: “A Salerno delle donne come voi mi hanno detto che hanno i figli della mia età”. Poi chiede quanto tempo ancora potrà restare al centro Baobab. Cerca risposte, Abel.

Non sono tutti loquaci come Abel, qualcuno non vuole dire il suo nome o non accetta di farsi fotografare: “non voglio che mio padre mi veda in queste condizioni”, dice. Moustapha è etiope, è arrivato due giorni fa a Roma: “Sono qui grazie alla Croce Rossa, mi hanno incontrato per strada, dove dormivo da 11 giorni e mi hanno pagato il viaggio. Sono stato per un periodo in un campo, poi una volta arrivato in Sicilia sono scappato dal centro perché eravamo in troppi, ma qui ci stanno trattando bene”. Per il futuro desidera una sola cosa: “La libertà, di cambiare la mia vita, di ricominciare”.

Nel frattempo il Centro Baobab si prepara ad ospitare la conferenza stampa di presentazione della web serie Welcome to Italy. Ospite dopo ospite, in Via Cupa arriva anche un gruppo di musicisti tunisini a rompere l’ozio dell’attesa, i bambini cominciano a ballare e compare qualche sorriso.

Prima di andar via ci avviciniamo a Themi, ha 35 anni e in Etiopia era un militare, prima di partire è stato nel campo profughi Adi Arsh, il secondo più grande del paese. “Vogliamo andar via dall’Italia, ma quello che fate per noi è importante. Sappiamo che la situazione è più grande delle vostre forze e noi siamo tanti”. Intorno a lui si raggruppano degli altri ragazzi, “Grazie per il vostro lavoro”, dicono. Poi se ne aggiungono altri, diventano una ventina e la situazione si ribalta: sono loro a fare le domande. Come funziona la legge? Perché ci rimandano indietro da alcuni paesi? Ora che cosa ci aspetta? Chi decide per noi? Difficile dare una risposta.

 Rosy D’Elia con la collaborazione di Cristina Liuzzo, mediatrice culturale

Foto di Adamo Banelli

(18 giugno 2015)