Sabbia: grazie al teatro i ragazzi sono meno spaesati

Giovani rifugiati durante una delle prove. (photo credit: pagina Facebook di Artestudio)
Giovani rifugiati durante una delle prove. (photo credit: pagina Facebook di Artestudio)

Ha portato il teatro in periferia, nel carcere femminile, nelle zone di guerra, e nei campi profughi. Riccardo Vannuccini, il direttore artistico di Artestudio, tra tanti altri progetti coordina anche il Teatro in fuga – un’iniziativa fatta di laboratori teatrali con i rifugiati in Libano, Palestina, Giordania o in Italia. „Il teatro può aiutare ad essere presenti. Sulla scena, ma anche nelle situazioni che vi capiteranno fuori dalla scena,“ dice il regista sotto la direzione del quale il 12 e 13 giugno al Teatro Argentina di Roma andrá in scena Sabbia, una performance scenica realizzata con i rifugiati del CARA (Centro di accoglienza richiedenti asilo) di Castelnuovo di Porto.

Come è l’atmosfera tra i ragazzi in questi giorni che precedono la prima?

Sono molto entusiasti, attenti, e anche un po’ preoccupati, com’è giusto che sia, perché appuntamento è importante. In questo momento sentono la responsabilità non solo di rappresentare le loro storie, ma evidentemente anche quelle di molti altri comprese quelle di compagni e amici che non sono riusciti ad arrivare in Italia.

Come erano questi dieci mesi di lavoro all’interno del CARA?Si sono alternati una sessantina di ragazzi, ora sono circa 25. Sono dei giovanotti fra 17 e 28 anni e provengono tutti da diversi paesi dell’Africa: Senegal, Congo, Zaire, Mali, Nigeria. Abbiamo impegnato i primi mesi a spiegare che cosa volevamo fare, quale era il senso dello spettacolo: portare in scena dei richiedenti asilo, dei rifugiati in un teatro importante, nel centro di Roma contemporaneamente abbiamo illustrato il nostro modo di fare teatro.

Quale sarebbe?È più simile al teatro danza. In scena parliamo molto poco, soprattutto facciamo cose. Cerchiamo di evitare di fare del folklore – non ci sono africani che cantano le canzoni africane, o che sono in scena con le valigie in mano e che raccontano “io ho viaggiato tanto, io ho sofferto”. Questo è sicuramente vero, ma è anche vero che i rifugiati sono le persone che nel loro paese facevano gli studenti, infermieri, idraulici e poi si sono ritrovati nella stessa barca per caso o per necessità. Il teatro, secondo noi, deve raccontare ciò che non è visibile. Le barche, le sofferenze le raccontano già la televisione e i giornali. Il teatro dovrebbe occuparsi delle cose che non si riescono a vedere: le sensazioni, i legami con la propria terra, le speranze, le paure.appuntamento sabbia 2

Non è la prima volta che lavora con i rifugiati o richiedenti asilo. Perché Le piace coinvolgere nel fare teatro questo gruppo di persone?Il fenomeno migratorio è qualcosa che riguarda il nostro tempo e lo riguarderá negli anni a venire. Il senso del teatro è quello di rappresentare le difficoltà dell’esistenza e cercare di capirle, all’inizio il teatro nasce proprio per mettere al sicuro il mistero della morte. In questo caso, quindi, il teatro mi sembra che possa servire a comprendere il fenomeno delle persone che fuggono dal proprio paese.

La scelta di portare il teatro nei posti insoliti cosa vi permette di fare di diverso rispetto al teatro “classico”?La nostra è una scelta che si riflette sulla realizzazione artistica, perché il teatro nasce dove c’è una necessità. Chiaro che andando in Giordania in un campo di profughi siriani o facendo un lavoro qui al CARA di Castelnuovo di Porto, in mezzo alle polemiche, il teatro si trova al centro di una necessità. Il gesto artistico ha il senso di ridare all’essere umano la sua peculiarità.

Cosa ha potuto sperimentare con i giovani rifugiati in questi mesi di lavoro?Hanno ripreso un senso di presenza nel mondo. Sono meno spaventati, meno fuori luogo, meno spaesati. Il teatro aiuta ad apprendere quella che è la nostra linea d’orrizzonte: dove sono, con chi sono, che cosa sto facendo. Quando i rifugiati sono travolti dal destino, senza sapere perché stanno qui, queste cose rischiano di travolgere anche quello che è identitario dell’essere umano. In questo caso, grazie al lavoro che abbiamo fatto assieme, un lavoro lungo e faticoso, ma anche divertente, queste persone oggi sono più presenti.

Cosa possono aspettarsi di vedere gli spettatori di Sabbia?Devono fare uno sforzo anche loro. Si devono aspettare un racconto di cui sono testimoni, quindi devono partecipare. In scena c’è una sedia che viene trasportata da un posto all’altro – noi lo facciamo con una grande attenzione, per cui quella sedia racconta qualcosa. Sta allo spettatore non guardare lo spettacolo come se fosse la televisione, o ascoltarlo come fosse la radio, ma partecipare come testimone, quindi capire che quella sedia spostata vuol dire spostare tutta un’esistenza: gli affetti, spostare la memoria, la vita.

Riccardo Vannuccini (1956) regista, attore, autore, laureato in Storia del Teatro, debutta in teatro nel 1978 al festival dell’Avanguardia a Formello. Nel 1994 svolge un lavoro nel carcere femminile, lavora anche con i disabili, dal 2003 comincia a collaborare con le vittime di tortura e richiedenti asilo. Teatro in fuga nasce con la collaborazione con INTERSOS in Libano e fino ad oggi ha portato i laboratori di teatro in Giordania, Palestina, Libano e in diversi CARA  in Italia.

Petra Barteková(10 giugno 2015)