Una schizofrenia dell’immigrazione, così qualcuno definisce il fenomeno delle mutilazioni genitali femminili, che riguarda molte donne arrivate in Italia dall’Africa. Di questo si è parlato al convegno “La prevenzione e il contrasto delle Mutilazioni Genitali Femminili: un progetto con le donne del Corno d’Africa a Roma“, che si è tenuto il 26 novembre presso la Regione Lazio. Di questo fenomeno, in riferimento al territorio romano, da qualche giorno se ne sa qualcosa in più, grazie ad un’indagine che non fornisce solo dati e storie di una violenza atroce, ma anche un metodo di lavoro, che è una speranza per conoscere più a fondo il problema. Quello raccontato in occasione del convegno non è solo la storia di un dolore ma anche di un successo. Quello di un’equipe che è entrata nelle case e nei racconti privati delle donne etiopi, eritree e somale che gravitano in Piazza Indipendenza e nella zona della stazione Termini. È un modo di lavoro che passo dopo passo ha mostrato la sua forza ed è sfociato in un video – che pochissimi potranno vedere-, in questionari, racconti e tanta consapevolezza.”Se si vuole sradicare questo fenomeno, le prime generazioni di migranti devono essere molto determinate. Fondamentale è la cittadinanza attiva” dice Laila Abi Ahmed, Presidente dell’Associazione Nosotras, che insieme ad antropologhe, sociologi e altri operatori ha scardinato il silenzio a furia di serate conviviali e risate e ha visto sgorgare confidenze e risposte, diventate dati per un’analisi. “I mass media hanno rotto il tabù, ne hanno parlato – afferma Laila – ma nelle case il tabù è ancora forte”. Parlare di sesso non è facile, né per gli uomini africani né per gli italiani, se soprattutto il luogo è la casa, la famiglia”. Per avvicinare le donne “è stato necessario conoscere la terminologia, mutilazione, escissione o infibulazione” aggiunge “e poi trattarla con delicatezza, senza stigmatizzare. Sarebbe stato controproducente avvicinarsi alle donne con frasi tipo “tu non rispetti i diritti o tutto ciò non occorre”.È una mediatrice, l’eritrea Ribka Sibhatu, dell’Azienda ospedaliera San Camillo Forlanin ad affondare il colpo “io vengo da un Paese dove non c’è alcun diritto, dove la donna è la mercé di tutti. Anche se la legge proibisce questa pratica, essa risulta ancora molto forte”. Dai dati Unicef la percentuale di donne tra i 15 e i 49 anni che ha subìto una mutilazione genitale in Eritrea, tra il 2003 e il 2014, è pari all’83%. La Somalia è al top con il 98%. L’intervento di Ripka fa un rimando anche all’intercultura “i tre paesi protagonisti delle indagini hanno una storia di forti contrasti. Farli incontrare su questo terreno difficile è stata un’occasione preziosa di dialogo”, ma Ripka fa anche un richiamo all’Italia. “Invito l’Italia ad impegnarsi nei confronti di queste nazioni, anche in virtù del debito storico che essa ha”. Il riferimento è alle conquiste coloniali del passato.Le donne contattate attraverso il progetto, tra il 2013 e il 2014 sono state 393 donne, 341 di loro hanno accettato di rispondere alle domande. Quasi tutte, 316, sono consapevoli che nei loro Paesi d’origine esiste tale pratica. Il luogo in cui ciò avviene più frequentemente non è una struttura sanitaria, ma la propria casa. Il 65% dice di averla subita. Il 98% delle somale interviste sono state mutilate, il 97% delle eritree e il 51% delle etiopi. Tali dati denotano la diffusione delle mutilazioni nei rispettivi Paesi. Solo una di loro dice di aver subito la mutilazione in Italia, tutte le altre in Africa. All’interno della famiglia sono presenti persone che hanno subito le mutilazioni? A questa domanda il 75%, cioè 256, ha detto sì, il 17,9% no e il 7% non ha risposto. Quando si parla delle figlie su 341 – il 70% di loro – risponde che non pensa verrà fatto alle loro ba,bine, il 3,8 crede che verranno praticate, mentre preoccupante è il dato mancante – coloro che non hanno risposto, il 25,8%.Quei dati hanno occhi, volti e prendono forma nel video di Marzio Marzot e Sabrina Varani, per questo progetto realizzato dalla Regione Lazio, in collaborazione con la ASL Roma A, l’Azienda Ospedaliera San Camillo Forlanini, l’Associazione Nosotras e la Fondazione Albero della Vita. Venticinque minuti di immagini che volano, seguendo il racconto degli operatori e delle donne africane. Una di loro dice “ho avuto paura di essere fuori dalla tradizione” per questo mi sono adeguata. Altre raccontano il giorno in cui subirono la mutilazione. Alla terza testimonianza non si può trattenere l’orrore “mi ricucirono male, non riuscii a urinare per molti giorni. Richiamai chi aveva fatto tutto questo e..” il racconto continua nelle lacrime “ricordo che mi ricucirono con spine di acacia”. Piange e fa piangere. La sua testimonianza non è schermata, vediamo il suo volto, entriamo nella sua intimità e in quella delle altre donne. Per questo motivo il video sarà visto solo da poche persone, addetti ai lavori: perché tutte si sono prestate a raccontare senza remore, sapendo che le immagini non sarebbero state diffuse se non agli operatori. Scelta condivisibile. Il racconto del video finisce con la consapevolezza di un lavoro prezioso che come dice la ragazza ricucita con spine di acacia “deve continuare, non fermarsi, raggiungere più persone possibile”. Un appello che sa di dolore e, da oggi, anche di speranza.
Fabio Bellumore(03 dicembre 2015)