Tra il deserto e l’Occidente: i Tuareg di Solo Andata si raccontano

sidi e haddou
Sidi Oubana e suo padre in una foto recente. I due sono protagonisti del film di Fabio Caramaschi “Solo Andata – Il viaggio di un Tuareg”, in proiezione in questi giorni grazie a Piuculture in alcune scuole del II Municipio.

“L’unica cosa a cui un Tuareg non si abituerà mai è l’orologio”. Riassume così Haddou El Hadji Oubana la distanza abissale fra il suo popolo e quello occidentale: ti puoi abituare allo stile di vita europeo, ma non ai suoi tempi frenetici. Soprattutto se vieni dal deserto.

Haddou, insieme al figlio Sidi, è protagonista di Solo Andata, il film di Fabio Caramaschi in proiezione in questi giorni in alcune scuole del Municipio II. “Abbiamo acquisito la cittadinanza Italiana e abbiamo un posto nella società”, spiega Haddou, ma quando parlano del deserto, sia lui che suo figlio oscillano fra il ricordo e la nostalgia.

I Tuareg: gli uomini del deserto

Il deserto è uno spazio sconfinato che si estende per chilometri sotto un cielo di stelle. Nelle zone di pastorizia i bambini imparano a conoscere “la spensieratezza di poter fare tutto quello che vuoi senza vincoli” e “la fatica minima che devi fare nel deserto per mangiare e bere”. Sidi ha conosciuto lì i “piccoli lavoretti che ogni bambino Tuareg ha fatto prima di diventare grande”: portare la legna per il fuoco, mungere le capre, prendere l’acqua dal pozzo, rendersi utile per l’unica cosa che conta: la famiglia.

Lasciare il deserto non è facile né per Haddou né per Sidi. Il primo parte con la promessa di tornare con regolarità, il secondo viene catapultato in un mondo di cui non conosce nulla, in primis la lingua. “Non parlando l’italiano è stato difficile relazionarmi con qualcuno del posto, io stesso mi sentivo estraneo. Sono sempre stato troppo timido, e di ragazzi stranieri in tutta la scuola se ne contavano su una mano”, racconta Sidi. Erano i tempi delle prime ondate migratorie, quando insieme agli studenti stranieri iniziava a diffondersi anche il dispregiativo “negro”, poco tra i ragazzi, molto fra gli adulti. Sarà per questo che gli unici episodi di razzismo che Sidi ricordi li ricollega a persone che non rientrano fra i suoi coetanei, e che spesso indossano una divisa: “qui, se su un gruppo di ragazzi bianchi ce n’è anche uno nero, solo al nero chiederanno i documenti“.

I Tuareg, tra storia e rivolte

Haddou i pregiudizi della comunità italiana li ha invece superati istituendo Mondo Tuareg, l’associazione che dal 2006, anche grazie al sostegno della Regione Friuli Venezia Giulia, promuove progetti per la costruzione di pozzi, scuole, mense scolastiche ed orti collettivi in Niger, diventando un legame tra i due paesi. Un destino quasi scritto, per uno che porta con sé l’achak, il pudore tipico dei Tuareg. Ma soprattutto per uno che è stato membro attivo della loro causa, sfociata poco dopo nell’omonima rivolta: “i Tuareg negli anni ’90 non facevano parte della politica del Niger, non avevamo nessun politico o ministro che ci rappresentasse”. Così anni dopo, nel 2007, segue un nuovo focolaio di rivolta: “il governo nigerino non ha rispettato gli accordi prestabiliti con quello precedente per i diritti del popolo Tuareg. E attualmente non presta servizi essenziali come il diritto all’istruzione e all’acqua” spiega Haddou.

Eppure oggi per gli occidentali è molto più facile associare il nome dei Tuareg a quelli dei trafficanti di uomini che trasportano oltre il deserto i migranti diretti in Europa: “Sappiamo che con l’eliminazione di Ghaddafi le cose sono peggiorate per tutti, specialmente per quei paesi che erano già instabili prima di allora. I Tuareg conoscono bene il deserto, e da sempre hanno fatto gli autisti tra Niger e Libia. Le grandi emigrazioni sono gestite da trafficanti di uomini con la complicità delle autorità. Perché in tutta l’Africa dell’ovest c’è libertà di circolazione regolare”, spiega Haddou.

Tra radici e futuro

Gli stessi anni in cui i Tuareg rivendicano la loro identità e i loro diritti, sono quelli in cui Sidi impara ad utilizzare la sua lingua come punto di forza: “mi imbarazzavo a parlare il tamashek con i miei genitori al mercato, per strada o al telefono. Ora invece quella stessa lingua la uso a mio vantaggio”. Un po’ come la sua visione dei legami e della serietà che in molti criticano: “Sono un ragazzo che guarda ai principi, che vorrebbe stare con una vera donna, forse perché quando mi innamoro è per sempre” spiega. Ma prima dell’amore vengono i progetti, ora che la scuola sta finendo: “Voglio ancora fare il giornalista” spiega. “Il giornalista è una persona che si interessa degli altri, non smette di imparare, scopre nuove culture, viaggia. Quello del giornalista è un mestiere dove non puoi morire ignorante“.

Molto lo deve a Fabio Caramaschi, che la passione gliel’ha trasmessa attraverso la telecamera e i tanti viaggi. Sarà per questo che c’è un’altra idea che frulla nella testa di Sidi, accanto a quella del giornalismo: “girare il mondo in solitaria adesso che ne ho la possibilità. Viaggiare alla scoperta di altre culture mi affascina. Per sentirmi cittadino del mondo prima devo girarlo: questo mi permetterebbe anche di realizzare filmati, documentari di storie sul campo”.

D’altro canto era prevedibile: un Tuareg non può rinunciare al viaggio. Anche se destinato al ritorno.

Veronica Adriani

(7 aprile 2016)

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