Tra calcio e diritti, il film Loro di Napoli

Scena Loro di Napoli Film
Scena Loro di Napoli Film

A Napoli non esistono le balieu per qualcuno, rom, neri, ma esistono le banlieu per tutti. In una città dove le sfide sono la microcriminalità, la disoccupazione e moltissime altre, l’integrazione e i diritti dei migranti sono uno delle tante preoccupazioni. E la percezione che si ha di essi è diversa da quella che ha un abitante di Como. É proprio in quella città, considerata spesso, a torto o ragione, la più problematica d’Italia, che il regista Piefrancesco Li Donni è andato a scovare le storie di Adam, Maxime e della Afro-Napoli United, una squadra di migranti partenopei provenienti dall’Africa e dal Sud America, composta da italiani di seconda generazione e napoletani. Una squadra di calcio. Una squadra di giocatori che sanno rispondere agli insulti in napoletano, nel senso che da anni, o da sempre vivono a Napoli, ma che non possono partecipare per mancanza dei documenti. Da qui ne è nato Loro di Napoli, documentario realizzato nel 2015 da Pierfrancesco Li Donni, presentato sabato 16 luglio nell’ambito della rassegna cinematografica Cinemario che si è tenuta al Museo della mente nel complesso di Santa Maria della Pietà, in piazza Santa Maria della Pietà 5, a Roma.

“Quando ho parlato per la prima volta con Adam ho avuto uno chock uditivo incredibile” racconta Pierfrancesco Li Donni. Il regista non si aspettava un nero che parlasse così spiccatamente napoletano. “Schurnacchiat razzist” urla Adam in mezzo al campo, in perfetto napoletano. Come dice Pierfrancesco “Adam  pensa come un napoletano”. A Napoli ci è nato e ora fa il “portiere in seconda” della squadra. Adam può ben rappresentare il concetto tanto caro al regista di un’“integrazione compiuta in un sistema sociale incompiuto”.Nella stessa squadra Maxime, 17enne della Costa d’Avorio che ha inseguito il sogno calcistico in Italia, ma che ogni giorno rincasa nella sua “catapecchia, dove hanno scritto “W la scissione, fuori i negri di merda”. Eppure in questa che è la città del meltingpot, dove si mescolano culture e problematiche, che sembrano avere lo stesso peso, nessuna gerarchia e nessuna banlieu, come dice Pierfrancesco, ci sono storie come quella dell’Afro Napoli e di Antonio.Antonio è presidente e fondatore della squadra. Anche papà, perché a tutti i ragazzi che non riescono ad avere i documenti offre il suo domicilio. Sì, perché lo scoglio di questa squadra è stato lo scoglio di un Paese che non riconosce le seconde generazioni, i figli di migranti che nascono in Italia e che bloccano anche il permesso di giocare in un campionato regolare, quello della Figc. Non basta sapere l’italiano e il napoletano, insomma non basta essere da anni, forse da sempre in Italia, per fare un campionato della Federazione Italian Gioco Calcio “fino al 2013 c’era bisogno di permesso di soggiorno e certificato di residenza di almeno tre anni. Oggi basta la residenza”. Ed ecco perché Antonio la offre a chi ne ha bisogno.Il documentario – girato da Li Donni che dice di voler “scassare le regole del documentario” – è sottotitolato, perché si parla in stretto napoletano. Ci sono voluti due anni per girarlo e raccontare l’annata calcistica 2013-2014.  Due anni tra i quartieri di Napoli e il Vallefuoco di Mugnano, il campo dove è nato il sogno della prima squadra fatta principalmente di migranti a partecipare a un campionato federale, l’Afro-Napoli United. mentre la burocrazia arranca e la legge per riconoscere i loro diritti l’Afro-Napoli United ha vinto un altro campionato e ora gioca in prima categoria.

Fabio Bellumore(21 luglio 2016)