Hakuna matata: la scuola a Zanzibar è senza pensieri

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Hakuna matata è la prima espressione che si impara quando si arriva a Zanzibar, vuol dire “senza pensieri” ma viene utilizzata spesso anche con il significato di “va bene” o “speriamo”. Irrinunciabile nel dizionario del volontario zanzibarino è anche pole pole, “piano piano” necessario per entrare nello spirito del posto e sopravvivere ai tempi africani. L’orologio si ferma, internet sparisce e il flusso ininterrotto di impegni, ansie e scadenze scompare, perché il tempo qui ha un’altra velocità, quella dei piedi scalzi e dei bambini in tre in bicicletta, della canna da zucchero da succhiare, delle maree che vanno con la luna.

Nel villaggio di Nungwi, a nord dell’isola, sorge la “Zanzibar School of Hope”, uno dei progetti di Maono Foundation, Ngo che dal 2015 si occupa di soggetti vulnerabili. L’idea nasce dall’iniziativa di un ragazzo dell’Uganda e dalla collaborazione di altri sei membri della comunità, tra cui tre maestre. Prevede gratuitamente l’avvicinamento all’inglese e una prima scolarizzazione per sessanta bambini dai quattro ai sei anni, divisi in pre-school 1, pre school 2 e nursery. La no-profit si avvale anche dell’aiuto di volontari internazionali: questo mese ci sono Elena e Agnese che sono venute da Roma attraverso Workaway.

Il materiale è ottenuto tramite donazioni da parte dei turisti e da una campagna di fundraising su internet: quaderni, matite, cancelleria, giochi e banchi. La timetable è quella di una scuola inglese e scandisce la giornata in maniera ciclica: circle time, educational class, health and enviroment, maths, literacy, games.

Quello che manca è la scuola stessa. I banchi sono portati sul prato dagli studenti alle sette e posizionati vicino al muro di una casa diroccata, poi riportati dentro a fine lezione alle dodici. Un blocco nero si muove con otto piccoli piedi: è la lavagna che viene appoggiata su dei mattoni mentre un bambino si arrampica per scrivere la data. Intorno i kuku, i polli, i rifiuti, i passanti e i vicini di casa che preparano la colazione e aiutano le maestre nelle situazioni di panico: tutto il villaggio partecipa alle lezioni a modo suo.

A volte si aggiungono bambini girovaghi che si siedono ai piedi degli alberi per ascoltare, spesso hanno neonati legati in vita. Solo la nursery ha una struttura dove stare ma è sprovvista di porte e finestre e i bambini entrano ed escono. A volte le maestre li ritrovano nelle classi sbagliate.

“Hello teacher, how are you?” – dicono in coro a Latifa, una delle insegnanti della scuola –“I am good, thank you”- risponde mentre disegna con un gessetto una scuola. “School, this is a school” e i bambini ripetono a comando come un esercito. La concentrazione è inspiegabilmente alta anche se a volte è interrotta da qualche quaderno rubato o qualche matita infilzata nel fianco. A ricreazione alcuni corrono al negozio per comprarsi la canna da zucchero: è una scuola aperta in tutti i sensi, i bambini si muovono continuamente e giocano con quello che hanno, il bagno non c’è e la fontanella è una vasca di acqua stagnante, da cui attingono con un bastone a cui è saldato un secchiello di plastica. Quello che fanno è kidogo kidogo, poco poco e procede sempre pole pole ma segna la differenza tra loro e gli altri che a scuola non vanno proprio.

La vita da volontari di Agnese ed Elena a Nungwi non finisce qui e oltre alle ore di normale lavoro c’è anche una novità: Geremia, un masai proveniente dal nord della Tanzania, che non sa scrivere ma che vuole imparare l’italiano per parlare con i turisti. Ha una bancarella in cui vende collanine e parei insieme ad un suo amico che si chiama Alleluja. 14233380_10210401920304596_283526751_oPer ora parla solo swahili e qualche parola di inglese, le due ragazze lo hanno preso a cuore. Alle sei l’appuntamento sulla spiaggia con le Mwalimu, le maestre, è diventato un’abitudine: cominciano con i saluti, l’alfabeto, i verbi, le emozioni che scrivono su un quadernino, con la traduzione in swahili vicino.  Intanto la classe cresce, molti altri curiosi prendono parte alla lezione asserragliandosi in un cerchio intorno a loro: “Ci sono le musungu, le bianche, che insegnano italiano al masai venite…”.

La lezione continua finché non cala il sole e l’assenza di luce rende impossibile la lettura, i ragazzi giocano a calcio sulla sabbia, i pescatori ritirano le loro barche e la vita che in Africa pullula da ogni parte non ti lascia mai solo.