“A che serve la memoria?” chiedeva Primo Levi, con una domanda che aveva il sapore amaro di un grido d’aiuto. Un grido che ancora oggi riecheggia nelle nostre coscienze, come una colpa indelebile che non riusciamo a cancellare. Al punto da aver scelto una giornata per ricordare, il 27 gennaio, interamente dedicata alle vittime del nazifascismo.Vittime delle quali fanno parte anche i Rom e i Sinti, come ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente della Cild (Coalizione italiana libertà e diritti civili), durante il convegno organizzato dalla Commissione Straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato e dalla CILD, in collaborazione con l’Associazione 21 Luglio.Almeno 500 mila vittime, delle quali abbiamo rimosso volti e nomi, delle quali poco sappiamo e poco ci interessa sapere. Eppure “ricordare un genocidio dimenticato significa ricordare per non ricostruire nuove tragedie”. Un problema, quello del rifiuto culturale nei confronti delle comunità rom, che appartiene a tutto il mondo, come ha ricordato Björn Larsson, che ha curato la postfazione del libro “Io non mi chiamo Miriam” (Iperborea) della scrittrice Majgull Axelsson, che tratta proprio il difficile problema della ricostruzione identitaria di una donna rom, sopravvissuta all’Olocausto. “Nel mio Paese si chiamano Tartari” racconta lo scrittore svedese “ ricordo che nella mia classe c’era una ragazzina rom, diversa dagli altri, malvestita, che viveva fuori dal paese, che tutti scansavano: io me ne innamorai. Fino agli anni ’60 i tartari vivevano in Svezia una condizione di emarginazione, avevano perfino una lingua segreta, a dimostrazione del loro bisogno di sicurezza. Oggi hanno ripreso un po’ di coraggio”. “In un epoca di muri” ha concluso Larsson in un accorato appello all’unione e alla libertà “sia in Europa, sia nell’America di Trump, dobbiamo difendere la libertà di poter circolare liberamente, di poter lavorare e muoverci in un altro Paese, insistere su un’idea dell’Europa”.Come spiega Carlo Stasolla, presidente dell’Associazione 21 Luglio, “Porrajmos” (grande divoramento) e “Samudaripen” (tutti morti) sono le due parole con le quali le comunità rom e sinte descrivono la tragedia che hanno vissuto sulla loro pelle, al pari di tutte le altre vittime.E se nel 2015 il Parlamento Europeo ha approvato l’istituzione di una Giornata internazionale per la commemorazione dell’Olocausto dei Rom, in Italia non è ancora avvenuto un riconoscimento ufficiale. La dimenticanza istituzionale, che ha escluso i Rom e i Sinti dalla memoria si è trasformata in una dimenticanza culturale.Un ricordo storico difficile da ricostruire, come ha minuziosamente illustrato l’antropologa Paola Trevisan, contaminato dalla condizione di “acittadinanza” nella quale vivevano le comunità in epoca fascista. E avvelenato da un peccato ancora più grave: “i racconti non sono diventati memorie condivise e condivisibili, non solo a livello istituzionale, ma anche a livello emotivo”.
Elisa Carrara
(28 gennaio 2017)