La libertà di informazione in Cina viene messa alle strette dalla censura del governo, in modi sempre più sofisticati…“Con più di 1000 quotidiani, 2000 canali TV e 9000 riviste, la Cina è un caso unico. Ha la popolazione online e il mercato dei media più grandi al mondo, ma entrambi sono sotto stretto controllo del partito comunista“. A parlare è Zhang Zhi’an, docente di Comunicazione e Design all’Università Sun Yat-sen di Guangzhou.Siamo a Perugia, durante l’appena conclusa undicesima edizione dell’International Journalism Festival di Perugia (5 – 9 aprile 2017). Uno dei tanti animati panel di discussione andati in scena. Si parla di Cina: tra media tradizionali e digitali.Milica Pesic, direttrice del Media Diversity Institute di Londra, conduce Zhi’an insieme a Fang Wang del FTChinese.com e Xin Xin docente di Comunicazione e Media all’Università di Westminster.Come in tutto il Sud Est asiatico, anche in Cina vige una pesante censura, ed essa si è modificata con lo sviluppo delle nuove tecnologie. “Dobbiamo trovare un modo per portare informazione”, dice la Wang. “In un’intervista che feci a uno scrittore inglese, mi disse che quando lasciò la Cina sentì che aveva lasciato la tecnologia. Ma è proprio questo grandissimo impatto tecnologico che genera controllo e che è particolarmente forte nel nostro Paese”. Per fortuna, solo in pochi casi l’editore impone di non “coprire” qualcosa…In Cina è praticata la censura sulla maggior parte dei media, l’unica cosa che è cambiata è la sua sofisticazione. “Il partito di governo può controllare i canali tv chiedendo di non riportare qualcosa o al contrario di sottolinearlo”. Questo forse è piuttosto notorio un po’ ovunque nel mondo, purtroppo. “Ma il governo può inoltre bloccare gli accessi a determinati siti, anche se registrati fuori dalla Cina, o determinate storie all’interno di questi. Per esempio non fu ammesso alcuno streaming sulla vittoria di Trump e nessun commento successivo. Questo solo perché l’America è considerata una nemica della Cina. Per me un’altra ragione è che è un presidente democraticamente eletto. Dunque le polemiche non vanno bene in ogni caso, dal punto di vista dell’establishment”.Solo pochi anni fa, “nel 2009, quando il governo era scontento di qualcosa chiudeva i siti”. Dal 2015 si preferisce “negare l’accesso in molti modi complicati”. Sono oltre 3.000 i siti bloccati, tra cui i più popolari social network (YouTube, facebook, Twitter, WordPress, Instagram, ma anche lo stesso Google). Poi ci sono i quotidiani (New York Times, Le Monde…) Infine anche le Ong come Amnesty International.Eppure uno studio dice che l’80% dei cinesi usa facebook. Molti siti possono essere, infatti, solo occasionalmente o perfino regolarmente accessibili. Dipende da dove si effettua l’accesso o dagli eventi in corso. In ogni caso poche persone (si parla del 5% degli iscritti) hanno la possibilità di accedere normalmente al social tramite la propria mail e password, e solo per motivi di lavoro. Tutti gli altri (un numero di persone grande come la Spagna) devono scaricarsi un VPN (Virtual Private Network). Esso consente di superare il Great Firewall della censura (ironizzando sulla Grande Muraglia cinese).Quello che si fa sistematicamente è “negare i commenti o la possibilità di andare avanti con la navigazione”. Finisce così che le persone magari non sappiano nemmeno in quali storie censurate erano incappate. “Un altro metodo è bloccare l’indirizzo IP del tuo computer che sta cercando di accedere a un articolo. Magari viene fatto per ‘poco’ tempo, sospeso per circa 8 minuti, ma per molti è più che sufficiente per rinunciare”. Oggi c’è quindi una sorta di “arte della censura”. Per questo gli stessi social che vengono bloccati “hanno un ruolo importante: danno il potere in mano alle persone e aiutano la veicolazione della cultura popolare”.Succede però che i social osteggiati, vengano poi utilizzati dagli stessi organi di partito per diffondere la loro politica. “Un caso emblematico è stato un video pubblicato dall’agenzia statale Xinhua lo scorso anno. Univa musica rap e animazione mentre esplicava le direttive ideologiche della Cina del presidente Xi Jinping (cose che un Berlusconi neanche si sognava). Sono le cosiddette “quattro onnicomprensive”. Prevedono, a livello appunto “globale”: la costruzione di una società moderatamente prospera; l’approfondimento della riforma; il controllo della nazione a norma di legge; il governo rigoroso del partito.Promuovere le politiche e le ideologie dello Stato sui social media è diventato routine per Xinhua. Ciò significa che, nonostante l’uso innovativo delle forme di cultura, la priorità rimane invariata: “far parlare partito e nazione, invece di dar voce ai cittadini“, sottolinea la Xin.“Noi non sappiamo perché siamo ancora accessibili”, continua la Wang, riferendosi al suo giornale pubblicato dal Financial Times inglese. È effettivamente uno dei pochi, tra gli esteri, ancora attivi. “Probabilmente perché il Regno Unito è visto come un competitor minore rispetto all’America. Siamo anche molto popolari e la popolarità è più difficile da zittire“.”La ricchezza e il benessere del leader, è questo che interessa a loro. Secondo il Governo non sono le storie a essere negative, ma il modo in cui vengono trattate. Il problema riguarda l’intera nazione anche se ci sono due province dove è molto più severo. Per fortuna perfino la censura può essere informazione. È la consapevolezza che c’è qualcosa di importante da conoscere. Anche noi, dentro le redazioni, abbiamo iniziato a usare delle tattiche. Quando scriviamo una storia delicata, magari non la mettiamo in prima pagina o nel primo canale, ma la scriviamo sempre e non tagliamo mai nulla”. Ormai la gente in Cina lo sa.
Alice Rinaldi
(19 aprile 2017)