Robert Mensah portiere ghanese dal berretto magico

Robert Mensah coppa campioni d'Africa
Il capitano degli Asante Kotoko, Ibrahim Sunday, mostra la coppa dei campioni d’Africa. Buona parte del merito va alle parate di Robert Mensah e, secondo scaramanzia, al suo berretto magico
Robert Mensah è un nome che al calciofilo medio può non dire molto, eppure secondo chi l’ha visto giocare è stato uno dei migliori portieri di sempre. Ghanese, classe 1939, alto intorno ai 2 metri ma dall’agilità incredibile per la stazza, diede dignità al ruolo prima del ben più noto Thomas N’Kono, estremo difensore del Camerun a cavallo fra gli anni ’70 e ’80. Il segreto di Mensah? Il berretto magico, dono del nonno, prete delle anime, quando era in punto di morte.L’Africa è un continente troppo sfaccettato per essere descritto con definizioni nette, anche se si tende a trattarlo come un blocco unico. Gli europei hanno raggruppato l’insieme di credenze, riti, tradizioni e superstizioni sotto il nome di Juju. Alcuni di questi sono sopravvissuti anche ai proselitismi cristiani e islamici, formando religioni che integrano monoteismo e animismo. Altra “religione”, tutt’altro che africana, è il calcio, che di fatto pure nella “razionale” Europa vede le sue belle scaramanzie. Ma se la magia bianca si mescola al talento, il risultato può essere portentoso. Anzi, leggendario.Ma torniamo a Robert Mensah. Quel berretto era diventato un simbolo e un oggetto di contesa. Ovviamente agiva a livello psicologico, per lui e per gli avversari, che più di una volta, in preda alla frustrazione, avevano tentato di strapparglielo con le cattive. Poi, come tutte le parabole, la carriera di Mensah arriva all’apice. È il gennaio del 1971, epilogo della sesta edizione della Coppa dei Campioni d’Africa. In finale, come tre anni prima, ci sono i ghanesi dell’Asante Kotoko, letteralmente i porcospini, e gli zairesi dell’Englebert, gli onnipotenti.La partita è sentita per due motivi: primo la vendetta. Nel 1968, dopo due pareggi, non erano stati comunicati all’Asante i dettagli dello spareggio. Ghanesi che quindi non si presentano e vittoria a tavolino all’Englebert. Poi il fattore politico. In Zaire c’è la dittatura di Mobuto, che come tanti “colleghi” usa il calcio come veicolo di propaganda. All’andata in Ghana, il 10 gennaio, finisce 1-1. Il ritorno è fissato per il 24 dello stesso mese.Mobutu e la federazione le provano tutte per ostacolare e sfiancare gli avversari. Questi vengono fatti alloggiare in una stamberga davanti alla palude e i vetri delle stanze che dovrebbero proteggere dalle zanzare e altra simpatica fauna, sono rotti. Ma per essere ancora più sicuri del trionfo, i dirigenti zairesi corrompono l’arbitro per favorire l’Englebert. Eppure i porcospini conducono la partita per 2-1, finché al 90′ il direttore di gara inventa un rigore per gli onnipotenti. L’allenatore dell’Asante, per protesta, invita i suoi ad andarsene.Ma Robert Mensah resta, vuole parare il rigore e dare la coppa ai suoi. Bene, ma deve togliersi il berretto, che è juju, è magia, quindi non regolamentare. Mensah, con grande coraggio e un pizzico di incoscienza, lo leva e lo mostra platealmente al pubblico, 90 mila spettatori più l’esercito schierato a bordocampo, poi benedice la porta. Alle sue spalle i militari, spaventati dal feticcio, lo infilzano con le baionette, come ad uccidere i suoi poteri. Dal dischetto, va l’infallibile Shinobu che però, ipnotizzato dalla danza sulla linea di Mensah, spara alto. L’Asante riscatta così la beffa di tre anni prima, contro una dittatura che le aveva provate tutte.Robert Mensah morirà alla fine dello stesso anno, appena trentaduenne, dopo essere stato coinvolto in una rissa in un bar. Sarà la sua seconda (e ovviamente ultima) apparizione pubblica senza il berretto carico di magia infusa dal nonno. In Ghana è lutto nazionale, come tributo a un portiere e prima ancora a un uomo i cui meriti andavano oltre la semplice partita di calcio. Un lottatore impavido, un trascinatore da cui poter trarre ispirazione. Meglio ancora se grazie a lui una Nazione intera si sentì sul tetto dell’Africa.

Gabriele Santoro(19 aprile 2017)


Le storie, giornalisticamente parlando, se rispettano determinate regole possono avere una grande potenza. Devono essere valide, rifarsi ad archetipi (il bene contro il male, grandi vittorie e altrettanto grandi sconfitte); essere universali, cioè catturare l’attenzione in qualsiasi parte del mondo ci si trovi; soprattutto devono essere complesse, raccontare la realtà in cui sono immerse, spiegare un contesto più ampio. Poi ci sono i grandi nemici delle storie: lo stereotipo, il protagonismo di chi le racconta, il logorio semantico, come ad esempio sa bene chi si occupa di immigrazione, costretto a sentirsi ripetere la parola “emergenza” finché questa si svuota totalmente di significato. Nel corso del festival internazionale del giornalismo di Perugia (Ijf) è andato in scena lo spettacolo Oltreconfine, racconti da ogni angolo del globo portati sul palco da giornalisti che, con un altro termine abusato, definiremmo storyteller. Filo conduttore, i “fantasmi di fumo”, credenze e superstizioni irrazionali ma tanto forti da influenzare il corso degli eventi.Per trovare altre storie di Oltreconfine, andate su InStereotype.wordpress.com