“Quando ti cade addosso un intero mondo che non conosci, da dove cominci per classificare?” è quello che pensa Richard, protagonista di Voci del verbo andare (2016), ultimo romanzo di Jenny Erpenbeck edito dal Sellerio e tradotto da Ada Vigliani che verrà presentato venerdì 19 maggio 2017 alle ore 19.00, nella Sala Conferenza del Goethe Institut, in via Savoia 15.La scrittrice, nata a Berlino Est nel 1967, padre di origini russe e madre polacca, è una delle voci più interessanti della letteratura tedesca contemporanea, che nel suo quarto romanzo dà vita a una storia ispirata alla sua personale esperienza di incontro con i migranti della sua città, restituendo al lettore un romanzo-reportage che mette in luce gli aspetti più reconditi dell’immigrazione, quelli più umani e intimi che le cronache spesso trascurano.We became visible è lo slogan che accompagna la protesta di un gruppo di migranti africani a Orianenplatz, nel quartiere berlinese Kreutzberg: stanno per essere espulsi, cacciati e rifiutati. Il viaggio in mare, l’approdo miracoloso a Lampedusa, il trasferimento in Germania, non hanno lasciato presagire loro nessuna prospettiva tangibile di una vita migliore. We became visible è uno slogan semplice, ma talmente evocativo che, come nella realtà ha avvicinato al scrittrice al mondo dei migranti,nel romanzo colpisce l’immaginazione di Richard, professore emerito di filologia classica che in occasione di quella protesta riesce a scorgere per la prima volta i volti e gli sguardi dei migranti a lungo nascosti dietro un muro d’indifferenza. L’urgenza che spinge Richard a dialogare con quelle persone, a dare nomi e cognomi a quei visi sconosciuti, non è solo un atto umano, ma anche politico. Cosa desiderano? Da dove vengono? Come è stata la loro infanzia? Quali canzoni cantavano? Come sono arrivati fin qui? E come si sentono ora in questo paese, lontani dai luoghi dei loro affetti? Sono le stesse domande che la Erpenbeck si è posta in prima persona: dopo diverse settimane di interviste, è riuscita a dar voce a quei migranti che sui giornali vengono solitamente identificati con un numero. Il romanzo, che con uno stile chiaro, senza orpelli né drammaturgie, lascia spazio a descrizioni, monologhi, riflessioni e illuminazioni, accoglie le storie che la scrittrice ha pazientemente ascoltato e raccolto, quelle dei profughi sbarcati a Lampedusa e arrivati a Berlino nell’autunno 2013. Storie come quella di Awad, ghanese che viveva a Tripoli col padre camionista, Rashid, nigeriano a cui i ribelli hanno ucciso il padre e distrutto la casa, Ali, musulmano zelante, Rufu del Burkina Faso, chiuso nella sua solitudine.Nel romanzo il filo di queste storie si dipana attraverso il racconto di Richard, che tutto ad un tratto si trova faccia a faccia con una realtà che segna “il passaggio da una vita quotidiana interamente occupata e prevedibile alla vita quotidiana aperta in ogni direzione esposta per così dire alle correnti, ossia quella che conduce un profugo”. È come se l’esperienza di Richard imponesse immediatamente al lettore di riconsiderare con altri occhi quello che è ad oggi uno dei temi più sensibili e urgenti della contemporaneità: la migrazione, l’approdo di tanti esseri umani nella sognata Europa. Ma l’Europa è davvero disposta ad accogliere?
“Richard ha letto Foucault e Baudrillard e anche Hegel e Nietzsche. Ma che cosa si mangia quando non si hanno i soldi per comprarsi da mangiare, questo nemmeno lui lo sa”. L’incontro con i migranti che non hanno più patria sconvolge la quiete e la quotidianità del professore che, riflettendo sulla condizione del profugo africano orfano della sua terra e delle sue certezze, rievoca il ricordo dell’emigrazione tedesca, della divisione di Berlino e delle due Germanie, in un’epoca non molto lontana nella quale anche i suoi connazionali si sono sentiti esuli. Ma il senso di perdita che prova di fronte alle tende dei profughi a Orianenplatz gli lascia un profondo senso di vuoto, lo getta nello sconforto, gli impone di ripensare agli eventi della Storia, alla dimensione umana di quei migranti che sembra andata perduta.
Però Richard, questo senso di vuoto sceglierà di colmarlo, percorrendo la strada della solidarietà e dell’accoglienza. Decide di avvicinarsi a queste persone, di conoscerle e fare qualcosa per loro: pagherà le cure mediche a Rufu, acquisterà un terreno per la famiglia di Karon in Ghana, aiuterà Ithemba, superstite del naufragio a Lampedusa, a “non affogare nel mare della burocrazia”. Per il professore, questi africani così diversi diventano pian piano “Tristano”, “Apollo”, figure mitiche ed eroiche, con le loro storie intense e disperate. E Richard, riflettendo su di loro, annota: “C’era un’infanzia. C’era una vita quotidiana. C’era una giovinezza”.
Elisabetta Rossi(10 maggio 2017)
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