La Porta d’Europa a LampedusaUn monumento per non dimenticare tutte le persone morte in mare per cercare salvezza e per fermare la strage: questo doveva essere la Porta costruita da Mimmo Paladino nel 2008 a Lampedusa. Fu chiamata Porta d’Europa, un’Europa che accoglie e salva. Oggi salsedine, ruggine e vento dalla Libia la stanno sgretolando, quasi a significare che quell’epoca è passata e la Porta senza uscio non serve più. Dopo gli accordi tra Italia e Libia del febbraio 2017 i migranti, tranne qualche piccola imbarcazione di tunisini, non arrivano più a Lampedusa e il centro di accoglienza è stato chiuso, ma la strage di umanità continua, altrove.Con l’immagine della Porta d’Europa che si sta sgretolando , insieme alla memoria dell’orrore dei centri di detenzione in Libia e dei lunghi drammatici viaggi di migliaia di disperati, si apre il libro di Pietro Bartolo, Le stelle di Lampedusa. La storia di Anila e di altri bambini che cercano il loro futuro tra noi, Mondadori.“Nel Mediterraneo è in atto un genocidio” ha detto il medico di Lampedusa alla presentazione del suo libro nel complesso del San Gallicano a Roma lo scorso 22 novembre, lui ne è stato un testimone e ora sente il dovere di raccontare la sua esperienza per ricordare a tutti che la strage di umanità continua, anche se è diventata più lontana.Si sente la commozione nella sua voce mentre racconta la storia di Anila, la bambina di 11 anni arrivata da sola, con gli occhi che brillavano di bellezza e dolore, che lui ha salvato e aiutato a ricongiungersi con la madre nigeriana costretta alla prostituzione. Ancora più forte è la commozione quando descrive il corpo martoriato del ragazzo scorticato vivo con un coltello; le pelli e carni divorate dalla “malattia del gommone”, espressione da lui inventata per indicare le ustioni procurate dal contatto prolungato con benzina e acqua salata; le cicatrici delle torture subite; i cadaveri ammucchiati nella strage del 3 ottobre 2013. Con amarezza ricorda i suoi due record di medico: 350.000 persone visitate e l’enorme numero di ispezioni cadaveriche. Ma è soprattutto ai bambini che va la memoria di Bartolo: quelli morti col vestito e le scarpette della festa, o costretti a bere liquidi accanto a un cadavere, o violentati.L’olocausto contemporaneoLui l’orrore l’ha visto, l’ha toccato, ci ha camminato sopra, se l’è portato a casa ogni sera. Non può dimenticare! Per questo, con l’umiltà di chi sa di aver fatto solo il suo dovere di uomo e medico, ha deciso di scrivere. Resta, profondo, il sentimento di impotenza; “ma c’è un modo per farci i conti: accogliere e curare”. Questo è ciò che Bartolo continua a fare ed è questo che risuona in noi come esempio di un bel modo di stare in questo mondo. Il nostro Mediterraneo è pieno di cadaveri e, diversamente dall’epoca dell’Olocausto, “oggi tutti sanno o possono sapere”, non si può accettare che si giri la testa dall’altra parte.Di impotenza ha anche parlato Pedro Felipe Camargo, rappresentante UNHCR per il Sud Europa, perché il compito di assicurare la protezione in mare e tutelare i diritti umani non viene svolto come le norme e la funzione stessa dell’agenzia richiedono: sconosciuto è il numero dei morti nelle acque libiche; difficile è sapere cosa accade nei centri di detenzione – anche perché la Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra del 1951 – e le piccole evacuazioni di rifugiati in Niger e poi in Europa che l’Agenzia è riuscita a organizzare sono troppo poche. Ma le difficoltà nell’esercizio del suo ruolo derivano anche da una comunità internazionale che vuole chiudere gli occhi: nella recente assemblea dell’ONU gli Usa hanno rifiutato di firmare il Patto globale per i Rifugiati e il Decreto Salvini è il frutto di una generale tendenza a politiche restrittive. Per questo – ha concluso Camargo – bisogna essere grati al libro di Bartolo che accende un faro su ciò che accade in Libia.La strada dell’integrazioneInsieme alla Porta d’Europa si sta chiudendo quella del cuore degli Europei, sempre più ripiegati su sé stessi – ha detto Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio – mentre in Libia le pratiche di schiavitù si stanno moltiplicando. Se la gente si sta chiudendo ciò avviene perché è spaventata dall’irregolarità e dal non governo dell’immigrazione. Ma, invece di intensificare i corridoi umanitari e i ricongiungimenti familiari, il nostro Governo pratica una politica di chiusura con il Decreto sicurezza. La strada da percorrere è, invece, quella dell’integrazione, su cui la Comunità di Sant’Egidio intende lavorare con più determinazione, nelle scuole, nella formazione, nel lavoro.
Luciana Scarcia
26 novembre 2018
Leggi anche:“Il 3 ottobre è rimasto nella memoria di tutti”. Il ricordo della strage di Lampedusa cinque anni dopoSoccorsi in mare: una nuova narrazione per la LibiaCorridoi umanitari: dietro alle storie di chi fugge una luce di speranza