Foto di Maki Galimberti per l’Espresso.“Ancora mi ricordo gli occhi terrorizzati e le mani alzate in cerca di aiuto di quei ragazzi che gridavano help me, aiuto, mentre provavano ad aggrapparsi alla mia barca. Io e il mio amico Onder eravamo lì pronti a soccorrerli. Un’azione che rifarei altre mille volte. Quando vedi in mare gente che sta affogando tra i morti che galleggiano, mi chiedo chi è che non lo farebbe?”.Costantino Baratta, 61 anni, muratore originario di Trani, in Puglia, e residente a Lampedusa dal 87, ricorda bene le persone che la mattina del 3 ottobre del 2013 erano in mare, a poche bracciate dalla costa di Lampedusa, dopo il tragico naufragio dell’imbarcazione libica dove persero la vita 368 migranti.Quella mattina, di ormai quasi cinque anni fa, doveva essere un giorno come tanti altri per Costantino. “Avevamo programmato di andare a buttare un po’ di lenze, invece ci siamo trovati in mezzo a questa tragedia. Ero abituato a vedere dei migranti a terra qui a Lampedusa, in giro per il paese, ma non a vederli in acqua. Non ci ho pensato due volte, li ho tirati su per le braccia o per la cinghia dei pantaloni a chi ancora ce l’aveva addosso e li ho messi in barca.”Costantino è riuscito a salvare dodici persone, di cui dieci adulti, un minore ed una ragazza, ma da quel giorno ha un grande rimpianto, “quello di non essere usciti in mare prima quella mattina, come facevamo di solito, verso le sei, all’alba, anziché alle sette. Ne avremmo salvati il doppio.” Da allora il 3 ottobre è stato riconosciuto come Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione.In questi ultimi cinque anni, Costantino, insieme a sua moglie, hanno continuato ad aiutare gente a Lampedusa. “Per fortuna non in mare e in quella situazione, ma ci capita molto spesso di trovare ragazzi disperati per strada, appena sbarcati sull’isola, che sfamiamo, aiutiamo e qualche volte accogliamo a casa.” Com’è successo nel 1999 quando Costantino, una mattina mentre andava a lavorare, ha trovato un giovane ragazzo tunisino che beveva l’acqua stagnante che era rimasta nella sua betoniera. “Gli ho dato la mia bottiglia appena l’ho visto, poi l’ho portato a casa e lo abbiamo aiutato e tenuto con noi fino a che ha avuto bisogno. Ancora oggi quando ci sentiamo ci chiama mamma e papà,” spiega emozionato quello che è considerato un eroe da tante persone e nel 2013 è stato nominato “l’uomo dell’anno” dal settimanale l’Espresso dedicandogli una copertina.“Mi sono un po’ arrabbiato con il giornale quando l’ho saputo”, confessa, “non dovevano farlo perché non penso di aver fatto una cosa da meritare una copertina. E come ho detto sempre non mi sento un eroe, ho fatto quello che c’era da fare quel giorno e che chiunque avrebbe fatto. Gli eroi sono quelli che dopo aver fatto una cosa si sentono bene. Noi, invece, ci siamo sentiti tutti male dopo quello che abbiamo visto quel giorno. Eroe è una parola che non voglio sia associata a me.”Costantino è consapevole però che questa esperienza, oltre ad avergli causato tanta sofferenza, gli ha cambiato la vita anche in modo positivo perchè la sua famiglia si è allargata. “Posso dire che gli undici giovani e quella ragazza che ho salvato mi hanno dato tanto, niente di materiale ma mi hanno arricchito. Per esempio Luwan, la ragazza che ho salvato e che stavamo lasciando in mare perchè pensavamo fosse morta, lo scorso settembre è venuta al matrimonio di mio figlio che per lei è come un fratello. Adesso abita in Svezia e tutti gli altri sono in giro per il nord di Europa ma ci vediamo ogni 3 ottobre per la commemorazione.”E dopo aver vissuto un naufragio dalla parte dei soccorritori a Costantino gli resta la soddisfazione di sapere che tutti loro cercavano un futuro migliore nel nord Europa e finalmente lo hanno ottenuto. “Ormai sono tutti autonomi, hanno seguito diversi percorsi di integrazione, si sono creati una famiglia e hanno fatto dei figli, ma soprattutto non sono più costretti a soffrire gli orrori della guerra”.
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