“Lucha y Siesta non si vende” – foto di Giada StalloneRispondono vigorosamente alla minaccia di sfratto le donne di Lucha y Siesta: nonostante un’aria di mezza estate spezzata da una pioggerellina leggera, sabato 7 settembre, sono rimaste compatte e agguerrite nel piazzale esterno al vecchio stabile dell’Atac in via Lucio Sestio 10, durante l’assemblea permanente. Dal 2008 la Casa delle Donne Lucha y Siesta, nato come progetto di accoglienza abitativo e sociale al femminile per donne che ne hanno bisogno, ha offerto informazioni, orientamento e ascolto. Lo stabile, edificio dismesso di proprietà dell’Atac, è stato riqualificato ed i suoi spazi modellati dalle persone che vi sono transitate, circa 1200. Oggi sono 15 donne e 7 bambini gli abitanti dello stabile che rischiano di vedere spazzato via non solo il letto e un pasto caldo, ma un intero percorso realizzato fino ad oggi. Lucha y Siesta, luogo di condivisione sociale, è totalmente autofinanziato e nonostante le attiviste abbiano provato a giungere ad un compromesso con le amministrazioni hanno trovato solo un muro fatto di silenzi. “Ci è arrivata una lettera in cui ci intimano di lasciare l’immobile. È stato dichiarato che il 15 settembre staccheranno le utenze quindi, di fatto, attueranno uno sgombero nella totale indifferenza del comune. Attraverso note stampa la giunta ci ha comunicato che si stanno adoperando a contrastare il fenomeno della violenza maschile sulle donne: queste parole sono completamente vuote dato il grande rischio che, nei fatti, stanno correndo tutti gli spazi dedicati alle donne nella città” commenta a gran voce Chiara Franceschini, attivista del comitato “Lucha alla città”nato in occasione della minaccia di sgombero e al quale è possibile aderire. Le attiviste infatti, e tutti coloro che supportano la causa, non si fermano alla sola protesta: vogliono comprare lo stabile per restituire Lucha alla Città.
La storia di Aidha
Sono le donne ed i bambini ospiti di Lucha y Siesta la linfa vitale dell’esperienza. Aidha è una giovane giornalista e attivista arrivata da Tripoli quattro anni fa. “Sono venuta in Italia, con l’aiuto di alcune organizzazioni, per fare ricerca sui centri anti-violenza italiani e ho seguito un corso da operatrice. Sono ospite di Lucha non come operatrice, vivo qui come tutte le donne, ognuna delle quali ha una propria storia. Per me questa è una università: qui mi sono integrata e ho conosciuto la società italiana, oltre ad aver fatto tante attività. Questo posto mi ha accolta, ho potuto insegnare l’arabo alle persone che mi hanno insegnato l’italiano: è stato uno scambio. Ho reso nota a tutti la cucina libica, un modo per far conoscere la mia cultura con l’obiettivo di mostrare un altro aspetto della Libia. Un volto che non si vede mai. In questo posto coesiste la cultura italiana con le culture di tutto il mondo, quì vivi nel mondo. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo organizzato un festival in cui ognuna ha cucinato il proprio piatto tipico per farlo assaggiare alla gente del quartiere. Questo posto non deve chiudere, se mai dovesse accadere si tratterebbe di una vergogna. Questo non è solo un centro antiviolenza, ma è un centro culturale e di integrazione”. Aidha, con un enorme sorriso, conclude “prima o poi tornerò in Libia, devo portare la mia esperienza lì”.
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