Storia di un rifugiato

Deserto di sabbia e deserto d’acqua. Sahara e Mediterraneo, gli ostacoli tangibili tra un rifugiato ed il suo sogno di libertà. Zarakia Mohamed Alì è un giornalista somalo di venticinque anni rifugiato in Italia dal 2008 che scrive da quando ne aveva quindici. Il suo percorso è fatto di persone che lo hanno incoraggiato a seguire la passione che nutre per il giornalismo. Aspira a poter “raccontare la verità. Le notizie dei media sugli immigrati sono superficiali e quasi sempre è cronaca fine a sé stessa. Ma Lampedusa e l’immigrazione meriterebbe approfondimento continuo. Nel periodo 1992-2011 35 giornalisti, di cui 24 somali e cinque italiani, sono stati uccisi senza una ragione. Quando hanno cominciato a minacciarmi personalmente, ho deciso che era il momento di lasciare il paese. Ero spaventato”. In linea diagonale verso occidente, dalla Somalia, attraverso l’Etiopia ed il Sudan, fino alla Libia, dove si attraversa il deserto di sabbia, stipati in decine su un camion per raggiungere Tripoli e sperare di imbarcarsi. Ci ha provato due volte. A maggio del 2008 ha passato tre giorni alla deriva su un gommone in quel mare che qualcuno ha definito “cimitero liquido”. Poi sono stati portati in Tunisia. “Siamo stati tutti picchiati e lasciati al confine tra i due paesi. Da una parte l’immagine di Ben Ali, dall’altra quella di Geddafi. Siamo arrivati a piedi fino a Tripoli, dove sono riuscito a partire stavolta su una nave di legno, imbarcandomi con molte meno persone della prima volta”. Il 23 agosto 2008 arriva a Lampedusa, dove riesce a farsi riconoscere come rifugiato grazie alla possibilità di provare, con le sue credenziali da giornalista, quanto affermato durante l’audizione nel centro di prima accoglienza.

I centri di accoglienza. “La cosa che manca sono centri d’ascolto. Le persone arrivate qui non sono tranquille, dopo tutto quello che hanno passato. Sarebbe importante che ci fosse la possibilità di depositare una dichiarazione. Nel mio percorso fino a Lampedusa ho riempito quaderni di appunti, questo mi permetteva di non pensare”. Dimenticare di essere protagonista della traversata e viverla come osservatore, per arginare il trauma. Ma il diritto internazionale, che riconosce il diritto d’asilo a chi migra perché a rischio di vita in patria, rimane confinato sulla carta. “Ci sono tante organizzazoni ed onlus che provvedono con il volontariato a soddisfare alcuni bisogni: l’accoglienza, l’apprendimento della lingua, la ricerca di impiego. Per esercitare la professione in Italia ho cercato di frequentare assiduamente i corsi di italiano. La mia insegnante non parlava né l’inglese né l’arabo, quindi ci intendevamo a gesti. Chi comincia a lavorare in settori non qualificati, poi, lo fa prima di aver imparato la lingua”. Condizioni di assistenza insufficienti a superare la prima barriera con il nostro paese, quella linguistica. “Inoltre per chiedere il ricongiungimento familiare dobbiamo trovarci un alloggio che non ci viene garantito dallo stato. Per quanto riguarda il lavoro, molte volte ci sentiamo dire che ricevendo un sussidio statale non possiamo essere assunti”.

I paesi scandinavi. Nei paesi con una politica di welfare più robusta le condizioni di integrazione sono diverse. Lo stato garantisce un alloggio e le persone riescono ad inserirsi meglio. Il regolamento Ue di Dublino impone però che la domanda di diritto d’asilo debba essere inoltrata nel paese in cui si è sbarcati. “L’obiettivo – scrive Christopher Hein direttore del consiglio italiano per i rifugiati in un articolo del Venerdì di Repubblica del 24 giugno – è evitare l’asylum shopping, il rischio che tutti chiedano di andare a vivere nello stesso paese”, con l’effetto però di ritardare e complicare per il rifugiato l’esercizio dei propri diritti legandolo a normative nazionali svantaggiose per la loro condizione.

Tre domande. “La diaspora somala in Italia non è coesa. Grazie ad internet continuo a collaborare con i miei colleghi in Somalia, ma la condizione di chi arriva non è facile, molti dei miei compatrioti in Italia sono diventati confusi. All’arrivo a Lampedusa, nei centri di accoglienza, ci vengono rivolte tre domande durante l’audizione. Cosa vuoi fare, cosa facevi e cosa sai fare. Occasioni in cui si usano risposte di circostanza perché nessuno di noi in realtà ha la risposta ai quesiti. Ci ospitiamo a vicenda quando necessario, ma c’è bisogno di ritrovarsi e di costruire una comunità. Senza acquisire la tranquillità necessaria è difficile trovare lo spirito giusto per coltivare un obiettivo comune. In Svezia, ad esempio, i membri della diaspora somala fanno convegni con ospiti internazionali, partecipano e vincono nello sport, parlano quotidianamente ed informano sui fatti e sui problemi della Somalia”.